
Vincenzo Mastropirro, Tretìppe e martìdde
Appunti di lettura di Anna Maria Curci
Non capita di frequente che qualcuno ti prenda per mano e ti faccia percorrere un sentiero la cui esistenza ti era pur nota, ma del quale non avevi intravisto altro che istantanee passeggere, illuminate per pochi attimi e subito scomparse senza neanche passare per la dissolvenza, certamente gelose del loro carico di eredità, forse riluttanti a rilasciare così, al primo lampo di intuizione, attestati di appartenenza.
Quel “qualcuno” è una raccolta di poesie, Tretìppe e martìdde. Questo e quest’altro, di Vincenzo Mastropirro (Roma, 2009), scritte nella lingua di “attanème” (mio padre), il dialetto di Ruvo di Puglia. Quel “sentiero” è il viaggio tanto atteso, profondo e “radicale” (Francesco Marotta), a ritroso e in avanti, è la conversazione con i lari che rischiara e chiarisce il presente, è il fondale di schmeichl un trern, sorrisi e lacrime – e l’yiddish mi viene in soccorso qui – davanti al quale si esibisce, stiracchiandosi o dimenandosi, l’esistenza.
Gli incontri di Vincenzo Mastropirro vanno ben oltre la semplice intuizione, hanno la consistenza del simbolo che resiste e sopravvive al sogno rivelatore. Ma, come nel binomio yiddish, sorrisi e lacrime sono inseparabili, anzi la risata fragorosa affianca, con un’armonia paradossale, il rimpianto, la tristezza per l’assenza. Il “fiore azzurro” di Novalis diventa qui fiore di carta, immagine centrale della raccolta, segno che Vincenzo Mastropirro sceglie per sé, cifra lasciata, perché sia colta, a chi legge:
Me vaite ind’a nu fiàure de carte
forte e coloròte.
Stoche chiandòte ind’a la tìerre
‘nanze a la tòmbe d’attaneme
ca se sté a pisciò sòtte da re resòte.
L’addemanne: “peccè stè a réire?”
ed idde la spicce subete.
Senza parlò vogghje sdradecamme e scappò
ma m’arrecùorde ca nan’ pùozze.
U terrene me mange a picche a picche
la paghiure me pigghje ma
pe fertìune m’arrecùorde d’esse nu fiàure de carte
e nan’ pozze meréje.
Mò capisce re resòte d’attàneme.
(p. 20)
Mi ritrovo in un fiore di carta
forte e colorato.
Sono piantato nella terra
davanti alla tomba di mio padre
che si sta scompisciando dalle risate.
Gli domando: ”perché ridi?”
e lui smette immediatamente.
Senza parlare vorrei sradicarmi e scappare
ma mi accorgo che non posso.
Il terreno mi ingoia a poco a poco
il terrore mi assale ma
per fortuna ricordo di essere un fiore di carta
e non posso morire.
Ora capisco le risate di mio padre.
(p.21)
Il sentiero non può non condurre a un Eden ruvido e insofferente a qualsiasi abbellimento, in una terra “arida e brulla in ogni stagione”:
La murge
Sapaje acchiò le funge
ma mò la murge nan’ è cchjue cume ’na vùolte.
La murge è cangiòte pe colpa maje.
Da quanne nan’ voche cchjue l’ònne sbancòte,
se la stònne a mangiò.
Ere nu paravéise
àrede e chjtràuse in ogn’e stagiòne
ere friède ma bièlle.
Dà, le penzire scappàine. Camenaie,
camenaie ed’ogn’e tande assàine le funge.
Ber’fatte, cardengìdde ber’fatte.
Ere brave ad acchjàlle.
Colpa maje, mo nan’ voche cchjue
e nan’ arriìesce cchjù a ’penzò, ad acchjò, a ’sennò.
(p. 22)
La murgia
Sapevo cercare i funghi
ma ora la murgia non è più come una volta.
La murgia è mutata per colpa mia.
Da quando non vado più l’hanno sbancata
se la stanno mangiando.
Era un paradiso
arida e brulla in ogni stagione
era asettica ma splendida.
Lì, i pensieri galoppavano. Camminavo,
camminavo e ogni tanto sbucavano funghi.
Bellissimi, cardoncelli bellissimi.
Ero bravo a trovarli.
Colpa mia, ora non vado più
e non riesco più a pensare, a cercare, a sognare.
(p.23)
Le conversazioni, tra sogni, ricordi, risvegli e “la pete de la poesèje” (“la pietra della poesia”, 110-111) sono spesso colloqui con la madre, la cui voce si fa “la” voce, anzi “la” pensée. Sì, perché il pensiero, come il sostantivo per definirlo nella lingua francese, è “femmina”:
U penzire è fìemene
Il pensiero è femmina
re fìemene sapene accùegghie
marionìtte ind’u vìende
se stonne citte cu la sanda pacìiènze
e aspèttene u momènde giuste
l’alte ròmbene le cheggjune, discene inde-e-fore
fascene batteglie inutele
sbattene le dìnde ‘mbacce ‘nu careche de mierde
chiacchjerèscene a vute.
(p. 106)
Il pensiero è femmina
Il pensiero è femmina
le donne sanno accogliere
marionette nel loro grembo
tacciono con pazienza
e aspettano il momento giusto
gli altri disturbano, farfugliano
incentivano anoressiche battaglie
sbattono i denti contro carghi di letame
chiacchierano a vuoto.
(p. 107)
Una Nota critica di Francesco Marotta chiude la raccolta. Ritengo insieme coraggioso e veritiero – al di là delle mie personali inclinazioni affettive, ché qui si incontrano per me lingua paterna e lingua materna – l’accostamento, suggerito da Marotta, della poesia di Vincenzo Mastropirro a quella di Albino Pierro:
«Sembra di vedere in atto in tutta l’opera, attraverso il rovesciamento dell’ottica cara ad Albino Pierro e alla tradizione dialettale che a lui si richiama (tutta tesa a ricostituire, in funzione “soterica”, un universo dove il fluire del tempo si arresta e le immagini si ritagliano il senza-luogo di una condizione archetipica, esemplare), una lingua che si insegue, che vive e palpita e che, in ogni momento, si incunea nelle immagini per impedire loro qualsiasi stasi, qualsiasi quiete appagante.» (p. 123)
Vincenzo Mastropirro, Tretìppe e martidde. Questo e quest’altro. Prefazione di Luigi Metropoli. Nota critica di Francesco Marotta, Giulio Perrone Editore, Roma 2009
Qui note bio-bibliografiche di Vincenzo Mastropirro.
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