90 anni fa, il 6 febbraio 1920, nasceva a Reggio Emilia Silvio D’Arzo, al secolo Ezio Comparoni. Di un episodio della sua breve vita (Comparoni morì nel 1952) ha scritto recentemente Giovanni Lindo Ferretti (CCCP, CSI, poi PGR) nel suo secondo libro Bella gente d’Appennino.
Mi sono avvicinata alle opere di questo autore noto a un pubblico non ampio, ma fedele, di lettori, grazie al suggerimento di un’amica e collega, che nell'autunno del 1996, dinanzi al mio quesito interessato – ero stata chiamata a partecipare a un seminario sulla letteratura per ragazzi in Europa – mi parlò di Penny Wirton e sua madre, proprio di Silvio D’Arzo.
Qualche anno dopo, animata da una curiosità volta a scoprire anche altri aspetti della produzione narrativa di Silvio D’Arzo, scelsi di leggere Essi pensano ad altro.
Essi pensano ad altro è stato definito un “romanzo d’apprendistato”. Scritto tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta del 20° secolo, narra delle difficoltà di Riccardo, giovane studente universitario, a inserirsi a Bologna. Riccardo alloggia presso Berto Arseni, amico del padre e imbalsamatore di professione. Ciò che accomuna i due è un senso diffuso di estraneità e il rifugio da un mondo ostile nel violino per Riccardo e negli animali – vivi o imbalsamati – per Arseni.
Ecco l’incipit del romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1976 e riproposto, con una bella e ampia introduzione dal titolo significativo, Il moderno disagio della diversità, da Roberto Carnero nel 2002:
Quando egli giunse al numero sette bis di via Marsala, il cielo d’un color morto e compatto d’alluminio era malinconico come gli sbadigli e l’acqua delle pozzanghere, ed un po’ meno dell’asfalto forse su cui i pneumatici delle macchine e dei camion davano uno strano rumore.
« Forse non riuscirò a trovarla, » pensò poi. Perché viaggiava per la prima volta e le sue scarpe erano ancora così terribilmente goffe e lucide e quasi inesperte ancora di vie e pietre, da sentirsi vagamente convinto che arrivare a destinazione e trovare casa numero e cortile si potesse solo per caso o una fortunata combinazione, non per altro.
Intanto si sentiva lontano dalle cose. La gente, passando svelta sotto l’acqua, mostrava un’indifferenza remota, quasi offensiva, e il colore degli impermeabili, più grigi ancora sotto quella pioggia, appariva anche più triste, sconsolante. Le spalle che si indovinavano in una magrezza rassegnata sotto la gomma, facevano provare un lontano ricordo di disagio.
Quando, infine, scoprì la casa fra le altre, c’era già gente per le scale perché stavano imbiancando un appartamento al primo piano.
Dappertutto, per la ringhiera e il corridoio, l’aria ricordava vagamente il latte. Due uomini, in un grembiule gialliccio e aspro di calce, e un cappello di carta da giornale, stavano parlando nella stanza vuota, dove spruzzi bianchi e minuti punteggiavano tutto il pianerottolo, ma sparsi in un certo ordine inspiegabile come agitando un cestello d’insalata. La stanza sembrava quasi chiesastica, immensa, non da uomini, e le voci dei due vi risuonavano ora stranamente: tanto che, anche ad occhi chiusi, bastavano quelle voci soltanto a far capire che all’interno, lungo le pareti e al contro, non c’erano né armadio né tavoli né cuscini od altro, e che un comò, lasciato lì da una parte come dimenticato o trascurato, sarebbe sembrato in quel vuoto una strana cosa, e forse inverosimile.
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