Tutto il cucuzzaro
“ E quante, sennò?”
“Tutto il cucuzzaro!”.
Livia si guardò attorno compiaciuta. Quello continuava ad essere il suo gioco preferito, anche qui, su quel balcone striminzito di via Flavio Stilicone, al Tuscolano. Intorno a lei, rispetto ai tempi di Ruvo, qualcuno in meno tra i fratelli e decisamente molti di più tra i nipoti. In ordine di età, oltre all’immancabile Gaia, la grande, Saverio, sempre assorto e compunto, nobilissimo come un piccolo lord, anche nei calzoncini corti che gli ballavano addosso (mangiava pochissimo e bisognava ricorrere alle iniezioni di ricostituenti, dinanzi alle quali il piccolo lord si trasformava in recalcitrante e ostinatissimo ribelle), Fabiola, bella, bionda, paffuta e sorridente, e Francesco, il folletto, con l’aria furba e irresistibile con le fossette sulle guance e i riccioli che coprivano le portentose orecchie a sventola. Quattro nipoti in poco più di quattro anni. Gaia non arrivava a sette anni e Francesco aveva appena compiuto due anni e mezzo, e già sua cognata Dora esibiva un fiero pancione. A settembre avrebbe avuto un altro nipotino – o più probabilmente un’altra nipotina, se si fosse rispettata ancora una volta la rigorosa alternanza di sessi nella sequenza delle nascite.
Per quello erano lì, alle dieci di sera del 21 luglio 1967.
In fin dei conti, non le dispiaceva affatto. Se fosse stato per Livia, avrebbe portato con sé i suoi nipoti, magari uno alla volta, quando andava a scuola, quando andava al Terminillo con la comitiva delle Acli.
Ma c’era un ma, e questo ma si chiamava Lorenzo. Lorenzo aveva gli stessi riccioli di Francesco, quasi sembrava uno di famiglia. Come Francesco aveva due fossette sulle guance, quando rideva.
E Lorenzo rideva spesso. Lorenzo sapeva ridere, con l’abbandono di un bambino, con tanto di sonoro del gorgoglio della risata. Quando era insieme a lui, sparivano dalla mente che lei forzava a un permanente stato di lucidità tutti i fantasmi sempre in agguato, i perché trascorsi così come le remore del presente. Tanto era magico Lorenzo.
Lo aveva conosciuto nell’aprile precedente. Insieme prendevano il treno per Ferentino scalo, insieme si dividevano, lui il primo, lei il secondo ciclo di due pluriclassi. Non avrebbe mai pensato che potessero esistere ancora aule così, con i banchi oblunghi dai piani ribaltabili, disposti su pedane a salire. Il legno, poi! Corroso e consunto, a tratti scalfito, a tratti levigato, la faceva rituffare in una scena qualsiasi del libro Cuore. Ci scherzavano, con Lorenzo, nei lunghi viaggi in treno da Roma a Ferentino e ritorno, soprattutto durante le soste che il lentissimo regionale era costretto a fare dinanzi ai resti dell’Acquedotto Felice. Allora Lorenzo tirava fuori il suo pacchetto di Muratti e si accendeva una sigaretta, non prima di averla offerta a lei, che ogni volta ringraziava e rifiutava.
L’anno scolastico era finito, insieme a quello della loro supplenza. Lorenzo era tornato al suo paese. Era di Terlizzi, Livia non poteva fare a meno di piegare le labbra a una smorfia amara. Il paese rivale, a cinque chilometri da Ruvo…. Lorenzo di Terlizzi? Un po’ le veniva da ridere, un po’ si malediceva per non avergli mai chiesto – in quelle settimane tra scuola e treno – se anche a lui piacesse “Tutto il cucuzzaro”. Non si erano scambiati il numero di telefono. Non usava. Lei comunque non avrebbe mai osato.
Livia aveva comprato un pacchetto di Muratti. Le sembrava di avere accanto Lorenzo, così. Quella sera, dopo aver aiutato Dora a mettere a letto i bambini, aprì la finestra di camera sua, scartò il pacchetto e, con un fiammifero rubato alla cucina, accese una sigaretta.
Anna Maria Curci
21 luglio 2007 – 24 agosto 2008
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