Renzo Favaron, Un de tri tri de un
Nota di lettura di Anna Maria Curci
Ha un incipit sovversivo, il volume di Renzo Favaron che raccoglie in una memorabile trilogia venti anni di poesia in dialetto veneto. Si tratta infatti del titolo della prima lirica proposta: Ecetera ecetera. Chi legge si chiede immediatamente, allora: “Ma come, siamo all’inizio del viaggio e già si millanta una prosecuzione nel non detto?”. Poi, si prosegue nella lettura e cominciano subito a delinearsi i tratti della poesia di Favaron: ricorrenza della forma interrogativa, che è l’esatto opposto della millanteria; terreno aspro e pietroso, che non disdegna, anzi pratica a mo’ di metodo il coraggioso scuotere la polvere e il sapiente menar fendenti; esperto maneggiare, in artigiana, musicale e fiera e consistenza, degli strumenti espressivi.
Parché no’ te-ssì,
chi xe che sa de ti?
’na neoda lontana,
la brosema o la pónta
dea matita che intardiga.
Parché te-ssì sta
anca se l’ora no’ dura
o no’ xe scominsià.
(p, 9, Perché non sei,/ chi è che sa di te?/ Una nipote lontana,/ l’aurora o la punta/ del lapis che indugia./ Perché sei stata/ anche se l’ora non dura/ o non è cominciata.)
E allora, si alzi il sipario sulla poesia “pifaro, verso e piera”, flauto, verso e pietra (Ecetera, ecetera). Che la costellazione di personaggi, vivi e morti, umani e non, sia oltremodo complessa e non si accontenti di categorie tradizionali, lo si scopre presto, scorrendo la sezione Prensenze e conparse (Presenze e comparse, volume pubblicato nel 1991), dove ci si imbatte nell’Apollonia de L’ultima tovagia (L’ultima tovaglia), e subito ci par di vederla accanto a Penelope, Aracne, Silvia,Mena/Sant’Agata:
No’ gavarìa che parole fruae
da ’doparar, de le cua’i no’ trovo
al caso gnanca una de adata.
Apollonia, Apollonia, Apollonia,
el nome dovarìa bastar...
da solo el vale cuanto
no’ sa gnessuna parola...
Ricama, Apollonia, ricama cue’a
che te ciami “l’ultima tovagia”
da ventani.
(p. 16: non avrei che parole logore/ da usare,/delle quali non ne trovo/ una adatta al caso./ Apollonia, Apollonia,Apollonia,/ il nome dovrebbe bastare... da solo vale quanto/ nessuna parola sa dire.// Ricama, Apollonia, ricama quella/ che chiami “l’ultima tovaglia”/ da vent’anni.).
È il mondo dei saltimbanchi che ci viene incontro con la sezione ‘L Magnafogo (Il mangiafuoco), galleria di personaggi che saltano giù da palcoscenici improvvisati su piazze di paese o tavoli bisunti di osterie per raccontare l’insensato perenne della storia, Come il fante di spade
Cofà la vecia de spade
I diari... tuto i sòfega: no’ i parla pì
né de diademi del Pacifico, né de le acue morte...
Persa, ormai, la vose,
on sasso se gà ficà drento, squasi
’na caràca a dó casteli de la Serenissima:
onde, pa’ on spago de sangue, ’scolto
in-te le rece el cuore ’ndare in merda
assieme a ’na banda, straòlta, de mosconi...
donche, tera in vista: ’na tera trista
che no’ ’tende gnessun, de mostri bianchi
e giganti indormessà...
i sogni i passa, e le ore le migra:
’gavevo musculi e on viso; forti i primi,
e l’altro pien de luse: cofà on vin voltà
so’ restà sensa spuma, sensa che córa pì
on milimetro tra la morte e el tenpo che ’ncora
me resta...
(p. 29. “i diari... tutto soffocano: non parlano più/ né di diademi del Pacifico, né delle acque morte.../ Persa, ormai, la voce,/ un sasso si è spinto dentro a forza, quasi/ una caracca a due castelli della Serenissima:/ dove, per una bava di sangue, ascolto/ nelle orecchie il cuore andare in merda/ insieme a una banda, stravolta, di mosconi...// dunque, terra in vista: una terra triste/ che non attende nessuno, di mostri bianchi/ e giganti addormentati... i sogni vanno, e le ore migrano:/ avevo muscoli e un viso; forti i primi/ e l’altro pieno di luce: come un vino andato a male/ sono rimasto senza spuma, senza che corra più/ un millimetro tra la morte e il tempo che ancora/ mi resta...”)
Nella sezione Altre conparse si va precisando il quadro, si delinea ancor più nettamente la coraggiosa vocazione dell’acrobata tra vivi e morti, tra finzione scenica e denuncia. A voler essere più precisi, occorrerebbe dire che è proprio attraverso lo svelamento del trucco di scena che si raggiunge il fine della denuncia, Anzitempo, nel tempo, oltre il tempo:
Ansitempo
I oci i resta suti e bianchi
’torno a ’na cità de morti,
fiame de xente tajà in crose
pa’ strada e sensa pì tenpo.
nudo so’ drìo i muri del sòno,
fato zà pensiero tolto
al mondo e finestra che no’ dà su gnente.
Gli spifferi de la riva sanca
sento ’fa colpi de frusta
sol viso, vissin ormai al punto
’ndove la strica d’acua dolse
entra descunìa in-te la baia...
E in boca me ride el sale futuro,
squasi che nantro se divertisse
e al posto mio vedesse el casoto,
la polvare de cuando se smonta
el tendon par senpre, ’nantro
che se burla al posto mio de cue’o che pare chì,
’ndove ’na paziensa zà persa gà ciapà el posto
de l’orchestra, de l’inpresario ulceroso,
de mi che resto tacà al trapezio
pa’ tricuarti magnà dai rati.
(p. 42, Anzitempo: “Gli occhi rimangono asciutti e bianchi/ intorno a una città di morti,/ fiamme di passanti tagliati in croce/ per strada e senza più tempo./ nudo sono dietro muri di sonno,/ divenuto già pensiero tolto/ al mondo e finestra che non dà su niente./ Gli spifferi della riva sinistra/ sento come colpi di frusta/ sul viso, vicino ormai al punto/ dove la striscia d’acqua dolce/ entra distrutta nella baia.../ E in bocca mi ride il sale futuro,/ quasi che un altro si divertisse/ e al posto mio vedesse il casotto,/ la polvere di quando si smonta/ il tendone per sempre, un altro/ che al posto mio si burla di ciò che appare qui,/ dove una pazienza già persa ha preso il posto/ dell’orchestra, dell’impresario ulceroso,/ di me che resto aggrappato a un trapezio/per tre quarti rosicchiato dai ratti.”)
Mentre prosegue, il cammino, tra le altre sezioni (Camare frede, Le ore, ‘Ndove che se ciama, Letara, Testamento, In cualche preghiera, A parte, Fora, Le simie, Facanapia) si resta sempre più convinti, con Anna Toscano, che “è una lingua nomade quella della poesia di Favaron, una lingua che si è formata in diversi luoghi e attraverso vari tempi, una lingua che si è fatta atto, una emanazione fisica e concreta e fisica di sé” (Anna Toscano, Renzo Favaron o de “tute le robe”, in : Guardando per tetrra, Voci della poesia contemporanea in dialetto, LietoColle 2011, p. 66).
Conservo con cura e con cura consegno e a tutti coloro che intendono percorrere un itinerario di lettura e ascolto nella poesia di Favaron, una delle conversazioni tra il poeta Renzo e il pittore Paul (Klee), dodicesima delle ventitré tappe di In cualche preghiera, manoscritto per me tanto prezioso quanto lo era per Walter Benjamin l’acquerello che rappresentava l’angelo della storia:
Poco altro che da nu
se xe ciapà, caro Paul.
Sì, me par de sentirte
chi tacà, a diesi sentimetri:
“altrimenti, come se sopravive?”.
ancuò rispondo: “Senpre
a lo stesso modo.
crepando e respirando
’na volontà a perdere ’na parte
de cue’o che se iè
o, meio, che se crede de essere”.
“Sì, no’ vegnere cancelà,
come che me xe capità”,
el dise “ma fare ’na roba,
anca cancelarse, che dipenda
da ti: no’ ghe xe pì libertà
cô se xe disposti a perdarla?”.
“Lo penso anca mi”, fasso.
“Ghe xe solo da guadagnarghe”.
“Xe vero, cô no’ gavevo
pì le man, pì ’na roba
se faseva dura,
pì dovevo farmela amica”.
domando: “Par cuesto
te disegnavi solo angei?”.
“chi altri gà pazienza co’ nu,
cô se xe massa ciapà da cue’o
che credemo de fare:
povare creature inpazienti!”.
El se varda la man,
la sera pian e po’ el fa:
“Perdoname, ’desso gò da ndare...”.
“Sì, Paul, prima cuerseme
co’ le ali che no’ te gh’è,
’ncora on poco fame sentire
come ’na cuerta
che me infassa, slonga
la luse ancora on poco:
sensa fine
sento nassare ciari del bosco
in ti”.
(p. 126.127: Poco altro che da noi/ si è presi, caro Paul./ Sì, mi sembra di sentirti/ qui vicino, a dieci centimetri:/ “altrimenti, come si sopravvive?”./ oggi rispondo: “Sempre/ allo stesso modo./ crepando e respirando/ una volontà a perdere una parte/ di ciò che si è/ o, meglio, che si crede di essere”.//“Sì, non venire cancellati,/ come è capitato a me”,/ dice “ma fare una cosa,/ anche cancellarsi, che dipenda/ da te: non c’è più libertà/ quando si è disposti a perderla?”./ “Lo penso anch’io,” faccio./ “c’è solo da guadagnarci”.//“è vero, quando non avevo/ più le mani, più una cosa/ si faceva dura,/ più dovevo farmela amica”.//domando: “Per questo/ disegnavi solo angeli?”.//“chi altri ha pazienza con noi,/ quando si è troppo presi da quello/ che crediamo di fare:/ povere creature insofferenti!”./ Si guarda la mano,/ la chiude piano e poi fa:/ “Perdonami, adesso devo andare...”.// “Sì, Paul, prima stringimi/ con le ali che non hai,/ ancora un poco fammi sentire/ come una coperta/ che mi fascia, allunga/ la luce fin che puoi:/ senza fine/ sento nascere chiari del bosco/ in te”).
Renzo Favaron, Un de tri tri de un. Con una nota di Giovanni Tesio e un saggio di Lorenzo Gobbi, ATI editore 2011
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Renzo Favaron è nato a Cavarzere nel 1959, si è laureato in psicologia presso l'Università di Padova, vive e lavora a San Bonifacio (VR). Dopo un'iniziale plaquette in lingua, uscita nel 1989, intitolata Voci d'interludio, nel 1991 pubblica in dialetto veneto Presenze e conparse (prefazione di Attilio Lolini). Del 2001 è il romanzo breve Dai molti vuoti.
Nel 2002 pubblica alcune minuscole plaquette, presso le edizioni Pulcino-Elefante, con i disegni originali di Giancarlo Consonni, Alberto Casiraghi e Luigi Mariani.
Nel 2003 pubblica Testamento, un'altra raccolta di poesie in dialetto (prefata da G. D'Elia), nel 2006 Di un Tramondo a Occidente e nel 2007 Al limite del paese fertile (venti anni di poesie in lingua accompagnate da tre cartelle di Alberto Bertoni).
Il racconto La spalla è del 2005.
Poesie dell'autore sono comparse in varie riviste letterare come: La tartana degli influssi, Lo spartivento, Lengua, Via Lattea, Diverse lengue e L’immaginazione, e in varie antologie poetiche; ha collaborato anche con la rivista Il Verri. È uno degli autori dell’antologia Guardando per terra. Voci della poesia contemporanea in dialetto (LietoColle 2011)
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