Ripropongo qui, ma nella mia traduzione, uno dei racconti della raccolta, tratto dai diari di Max Frisch del periodo 1946-1949.
Max Frisch, L’ebreo di Andorra
Ad Andorra viveva un giovane che veniva ritenuto ebreo. La storia presunta della sua origine sarebbe da raccontare, le relazioni usuali con gli andorrani che in lui vedevano l’ebreo: l’immagine preconfezionata che lo aspetta ovunque. Per esempio la diffidenza nei confronti del suo cuore, che un ebreo non può avere, come anche gli andorrani sanno. Gli si fa notare l’acume dell’intelletto, affinato appunto dalla necessità. Oppure il suo rapporto con il denaro, che anche ad Andorra riveste un ruolo importante: lui sapeva, sentiva quello che tutti pensavano in silenzio; si studiava per vedere se era vero che pensava sempre al denaro; si studiò finché scoprì che era vero, era proprio così: pensava sempre al denaro. Lo confessò, tenne ferma questa posizione, e gli andorrani si lanciavano sguardi in silenzio, quasi senza muovere un muscolo del viso. Anche per le questioni riguardanti la patria sapeva perfettamente quello che pensavano; ogni volta che lui pronunciava questa parola, loro se ne tenevano alla larga come si fa con una moneta caduta nel fango. Infatti un ebreo, anche questo sapevano gli andorrani, ha patrie che sceglie, che compra, ma non una patria come l’abbiamo noi, come può averla uno che è nativo del luogo; e per quanto benevole fossero le sue intenzioni ogni qualvolta si trattasse di problemi andorrani, le sue parole si scontravano contro un muro di silenzio. In seguito comprese che mancava evidentemente di tatto, anzi gli fu detto chiaro e tondo, una volta che lui, avvilito per il loro comportamento, assunse toni quasi passionali. La patria apparteneva agli altri, questo era assodato, e non ci si aspettava da lui che potesse amarla; al contrario, i suoi tentativi ostinati non facevano che spalancare un abisso di sospetto: lui cercava solo di conquistare il favore degli altri, di ottenere dei vantaggi, di entrare nelle loro grazie, tutte manovre che venivano avvertite come mezzi per raggiungere uno scopo, malgrado non si riuscisse a individuare uno scopo plausibile. Le cose proseguirono in questo modo, finché un giorno scoprì, con la sua irrequieta sagacia, che non amava la patria, che già soltanto la parola stessa lo metteva in imbarazzo, ogni volta che vi doveva ricorrere. Evidentemente avevano ragione. Evidentemente egli non era assolutamente capace di amare, non nel senso andorrano; certo, aveva l’ardore della passione, e, oltre a ciò, la freddezza del suo intelletto. Questo veniva avvertito come un’arma segreta, sempre pronta a colpire, carica della sua brama di vendetta; gli mancava il cuore, l’elemento che unisce; gli mancava, questo era innegabile, il calore della fiducia. Intrattenere rapporti con lui era stimolante, questo sì, ma non piacevole, non dava la sensazione di cordialità. Non gli riusciva di essere come tutti gli altri e, dopo aver tentato senza successo di non dare nell’occhio, ostentava la sua diversità con un’aria di sfida, di ostilità sempre in agguato, ostilità che, ancora una volta, indorava con una facciata di cortesia solerte; anche quando si inchinava, sembrava una sorta di rimprovero, come se fosse l’ambiente circostante ad avere la colpa del suo essere ebreo.
La maggior parte degli andorrani non gli faceva nulla.
Quindi non gli faceva neanche nulla di buono.
D’altro canto c’erano andorrani di spirito più libero e, così si definivano, progressista, di uno spirito che si sentiva in obbligo di mostrare umanità: questi rispettavano l’ebreo, come usavano sottolineare, proprio per le sue qualità ebree, acume intellettuale e così via. Rimasero dalla sua parte fino alla sua morte, che è stata terribile, così terribile e orrenda da sconvolgere anche quelli tra gli andorrani che erano rimasti insensibili al fatto che la vita di lui fosse stata così terribile. Per essere precisi, in realtà non lo accusavano, ovvero, detto molto chiaramente, non ne sentivano la mancanza – solo erano indignati con quelli che l’avevano ucciso e per il modo in cui ciò era avvenuto, soprattutto per il modo. Se ne parlò a lungo, finché un giorno si scoprì quello che lui stesso non aveva avuto la possibilità di sapere: il defunto era un trovatello, l’identità dei cui genitori fu scoperta solo in seguito, insomma un andorrano come noi.
Non se ne parlò più. Tuttavia, gli andorrani videro con orrore, ogni qualvolta si guardavano allo specchio, che essi stessi portavano i tratti di Giuda, tutti, ognuno di loro.
(da Tagebuch 1946-1949, traduzione di Anna Maria Curci)
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