
Luigi Simonetta, Acquerello
Un anno con… 25 Elfsilber
I
Come un accento a voce claudicante
balza e s’arresta il limite del giorno.
Taglieggia tra le sdrucciole e le piane
e tronca si riveste soluzione.
II
Raccogli panni e polvere a tentoni
(volteggia cencio bianco in dissolvenza).
Increspate le reti a ranghi storti,
pesca a strascico appare soluzione.
III
Non mette conto di narrare cruccio
se questo è tenue al cospetto di strazio
carta vetrata che sfalda ogni giorno
anche il sorriso imbe(ci)lle e tenace.
IV
Hai diviso, sezionato, riposto,
glossato e modulato con l’artrosi.
Sui piedi e le misure le escrescenze
si spingono, arrendevole reclamo.
V
Al portatore d’acqua non si chiede
di narrare di sé e della sua fonte.
Sorda sete che s’avventa sul secchio
scansa polvere suole e passi stanchi.
VI
«Lassez!» soleva dire, inascoltato.
La si faccia finita col teatro
le baruffe bassotte flatulente
il bolo sbalestrato ma conforme.
VII
Alacre in automatico, pedala
il postino obiettore (ma è coscienza?)
all’ennesimo sorgere del sole.
Ardore d’ordinanza occulta resa.
VIII
Nell’interludio tra le glaciazioni
s’inorgoglisce l’uomo, si fa centro.
Pesce rosso nella boccia di vetro
è invece e a malapena se ne avvede.
IX
Voi che apprezzate solo di sfuggita
(non vi si chieda altro, veh, non licet)
siete fermi al morbillo della spunta,
quella sociale esiliata all’occhiata.
X (a Vincenzo Errico)
Quando, strazio negli occhi e mente scossa,
apre Augustus Snodgrass quel taccuino,
avanza di buon grado anche il sorriso.
Non lo sperava, ma si allarga breccia.
XI
Quei rondinotti rannicchiati all’Elba
sono cresciuti, si son fatti corvi.
Non gracchiano, starnazzano eleganti,
librano versi telecomandati.
XII
A scrivere si va, furiosamente,
col contagocce o piena senza presa.
Senza pudore scimmiotta il lenzuolo
l’ardire di coperta rimboccata.
XIII
Voi che l’ardire lo intestate a terzi
che visibili ansiosi poi abdicate
non vi basta tastare le mie piaghe
fare la doccia con le mie macerie.
XIV
Discreto, torni a chiedermi dell’ora,
quando ti ridarò… che ti ho prestato?
Non ha più suono la luce che filtra,
vano o spicchio, anticamera di pace.
XV
Canticchiare con le gambe conserte,
mettere i saldi per non stare soli
indaffararsi con stridio di specchi.
La pietra sa che ci prendiamo in giro.
XVI
Quando noi scendevamo alla marrana
(adesso non c’è più, bonificata)
scansavamo con cura i ciclamini
e coglievamo con ardore serpi.
XVII
Rimescolava i tarocchi sgranati
(i servi intanto azionavano leve).
Disse: «Io credo alla bontà dell’uomo»,
poi diede un morso e ritornò in trincea.
XVIII
Se le frontiere diventano ponti,
scorre limpida l’acqua a dissetare,
la fionda e cerbottana sono un gioco,
David smette di imitare Golia.
XIX
Entusiasti, mi strappate un sorriso.
I polpastrelli nella tinta rosa,
le fronti fieramente corrugate,
la bottega di sogni a cielo aperto.
XX
Puoi scambiare stupore con sgomento
se è l’orizzonte a venirti incontro.
Quando riprende il volo la speranza,
cocciutamente sai che non è fuga.
XXI (a Fabio Michieli)
La bellezza qui gioca a nascondino –
conversazione iin piazza Sant’Anselmo –
tra quel civico tre, Belinda e il mostro,
un sorriso su granchi e “ruba-scena”.
XXII
Dove incasellerai, adesso e sempre,
bisunte epifanie della rovina,
festoni a intermittenza degli scarti?
La dignità volteggia con cartacce.
XXIII
Quell’alzata di spalle e il chuchotage
la chiamata in disparte ed il sofisma
finto-bonario minimizzatore
a silenziare sdegno e ribellione.
XXIV
Non ho mai fatto il cambio di stagione.
Libri sghembi e vestigia ammonticchiate
sono compagni d’ore e d’omissioni
schedari e fusciacche d’altre sfilate.
XXV
Sorrido a quei proclami ripetuti,
pellicole e romanzi delle cime,
la vetta genuina di riforme.
Ancora sto tra pagine scordate.
Anna Maria Curci
(11 gennaio – 23 novembre 2014, con un balzo indietro al 29 aprile 2013)
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