Lucia Tosi, Metafore del freddo. Sei poesie
Nota di lettura e una traduzione di Anna Maria Curci
Vorresti stringerla in un pugno e serbarla gelosamente, questa poesia, manciata di riso sapido, riserva tenace di arguzia, lume “antivedere” al sussiego mortalmente serio e mortalmente ridicolo; dietro la curva, tuttavia, si realizza la sorpresa dell’incontro – scontro, partita a scacchi, intuizione, momentaneo connubio o scazzottata – della pianura desolata della vita e dell’attrazione della parola:
e ancora e ancora. dietro il treno e dietro le mie spalle stavi tu laguna, e tu luna invisibile. io a sognarvi entrambe, senza vedervi in figura, con i bastioni dei cavalcavia in ipnosi alcolica dentro gli occhi, ho pensato: ecco, il solito scacco, la vita è qui e quando la vedo pulsare mi ammalo di parole, la penso da subito in parole. opera aperta, in fieri, non so. era poco fa
Comprendi, allora, che non può, non deve essere sottratta ai desti, a tutti coloro che desti intendono esserlo.
Sono le considerazioni scaturite dalla lettura di Fuori stagione, inediti 2013 di Lucia Tosi scelti da Natàlia Castaldi per La dimora del tempo sospeso, a introdurre questa mia breve nota alla poesia di Lucia Tosi.
Di Lucia Tosi ho letto e ascoltato le voci del Piccolo alfabeto del malumore come 'gallenbittere Galgenlieder': la ferocia del disincanto sa trovare stiletti precisi e affilati nell’umorismo che rovescia e smaschera.
Con O Penati Lari! Venti conversazioni con i morti, raccolte da Francesco Marotta per La dimora del tempo sospeso nel numero XXXIX dei Quaderni di Rebstein, ho percorso un itinerario di cognizione del dolore e di ri-conoscenza del sé e dell’altro, del sé nell’altro. («Dialogo in vece di fiammella votiva / strattona la memoria. Evocare? / Invocare? Provocare forse. / Rapido e tagliente pensiero scuote / d’ambo le parti i muri, sussultano / stagni taciti, balenii bluastri», scrissi allora).
La scelta di testi che propongo qui nasce da un percorso di lettura, attenzione, consuetudine, al quale volgo lo sguardo con un sentimento di familiarità e, insieme, di aspettativa mai delusa.
Le metafore del freddo introducono e uniscono nel loro nome – un nome che promette, tenendo fede alla promessa, il gelo arguto e chiarificatore della scrittura di Karl Kraus - una manciata di versi che mantiene lo sguardo acuto («essere aquila averne l’occhio guardare / il sole senza abbassare lo sguardo»), il capovolgimento intenzionale e ‘armato’ delle immagini consuete e altrove innocue («non possono essere gentili i narcisi: / non lo sono mai davvero e mai del tutto.»), la coscienza, divertita e disperata, beffarda e ‘fedele’, tra il “vajont di disperazione” e il tracimare della risata; altro non è, questa coscienza, che la consapevolezza, per sua natura dinamica e polifonica, dell’imperfezione.
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