In attesa di domani pomeriggio, quando,
in occasione dell’incontro con Ilaria Beltramme all’Associazione “Villaggio Cultura – Pentatonic”, discorreremo della sua opera più recente,
La società segreta degli eretici (Newton Compton, Roma 2013), romanzo storico di impianto sicuro e dalla trama avvincente, viaggio nei secoli e in luoghi ‘fatali’ della storia europea, ricostruzione attenta a veridicità e verosimiglianza e, insieme, tributo alla conoscenza non privo di un vero e proprio atto d’amore per “l’enorme ibrido” (così Cristina Campo definiva la Città Eterna), mi soffermo su un dettaglio che, da un capitolo del romanzo di Ilaria Beltramme, mi conduce indietro a una lettura di qualche tempo fa, serbata nella memoria e ora riproposta qui.
Il luogo in questione è l’ingresso a Villa Palombara – Villa Palombara si intitola il capitolo del romanzo di Ilaria Beltramme: quattro pagine, da 176 a 179, che rappresentano una pausa significativa e fitta di legami con il passato e di ponti con l’avvenire nel tumulto degli eventi narrati – altrimenti conosciuto come Porta Magica. A questo luogo Cristina Campo dedica una parte del suo
Omaggio a Borges, che si può leggere dalle pagine 205 a 208 del volume
Gli imperdonabili, e del quale propongo oggi la lettura di alcuni brani:
“Si sa che Roma, l’enorme ibrido, ha di tutto: basiliche sotto il livello dell’acqua, una piramide, giardini pensili – e un sanatorio sul quale un’alta torre di ferro brucia nero petrolio da un’alba all’altra. Pochi sanno che in una piazza tristissima, tra le meglio sfigurate dai secoli, dall’urbanistica, dalla vita, Roma ha una «rovina circolare».
La forma di questo piccolo rudere bruno-terra è a raggera*, o per dir meglio a foglia di palma: diversi bracci, un tempo forse corridoi, convergono a una piccola porta. Esso fu un minuscolo tempio alchimico*, una cappella di cabalisti cristiani edificata nel secolo XVII dal Marchese di Palombara e frequentata, fra personaggi più o meno mal conosciuti, da Cristina di Svezia. Oggi, d’intatto non resta che la porta. È ricordato infatti, quel monumento come la Porta Magica.
In realtà quella porta, accecata di mattoni rossi, non porta più a nessun luogo. Pagina sigillata, solo intorno agli orli, lungo la chiara cornice di un marmo scorrono ancora parole: simili a uccelli neri e bianchi che, immobili sulle, si reggano a mezz’aria fra la terra e il cielo: Quando in tua domo nigri corvi partoriente albas columbas tunc vocaberis sapiens… Qui scit comburere aqua et lavare igne facit de terra coelum et de coelo terram pretiosam…
Ho detto della piazza dove si trova questa rovina. Non ho detto che è vicinissima alla Stazione Centrale, vale a dire, in una metropoli, ad uno dei più infetti scoli urbani. La piazza stessa è una spirale di gironi. All’esterno c’è la parete di rosse carni, piumaggi madidi, scaglie, sozzi grembiuli (ma anche corolle di puro ghiaccio, glauche foglie e radici) di un mercato permanente. Più all’interno, un parco per bambini: nient’altro su quel che resta di aiuole, che un villaggio di cartapesta pitturato alla brava, con intenzione apertamente umoresca (il bambino d’oggi deve capire che il gioco non è più una visione, è un ammicco). […]
Quella piazza può sembrare il luogo geometrico di coloro che Proust chiamò i collezionisti di maschere del reale: gli scrittori di parvenze, gli scrittori realisti. […]
C’è, però, la Porta Magica. È chiaro che a tali scrittori essa si renderebbe subito invisibile; ed è ancora più chiaro che senza la Porta Magica l’intera piazza scompare. Dei gatti alti sui rami non resterebbe, in pochi istanti, che il riso – come quello del Ghignagatto di Alice, come quello forse che gli alchimisti attribuivano a Mercurio. Del sedimento putrido del mercato resterebbe nell’aria un uno spruzzo di neve: l’anima del prunus bianco. E di umano una statua funeraria, riversa là sul braccio di rovina, il berretto sul viso diventato maschera d’oro. (Horti magici ingressum Hesperidum custodit draco et sine Alcide Colchicas delicias non gustasset Iason).
In quella piazza pitagorico-viscerale pensai a Borges: al suo gesto di ierofante che ripete quello dell’uomo figurato, come egli stesso racconta, sopra la mappa gnostica: un indice teso al cielo, uno alla terra. Ricordai la straziante, l’impassibile parola con la quale egli ha forse sigillata la Porta Magica: «Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono».
(Chi condivide oggi quel passato? Chi quell’alfabeto di simboli? Vi è un passato? Vi sono simboli? Dove, dunque, il nostro linguaggio?)”
Da: Cristina Campo, Omaggio a Borges, in: Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano 1987, 205-207)
*così nel testo
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