Ho una brutta abitudine: non riesco a separare, come suggeriva prudentemente il buon Kant nella sua risposta alla domanda Che cosa è l'illuminismo?, la sfera privata da quella pubblica. Mi spiego meglio: l'esercizio della ragione non viene sospeso nell'espletamento della funzione docente, ma quello accompagna e sostiene questo, senza abbandonare mai la cornice di finalità, obiettivi, contenuti, metodi, modalità e strumenti. Mi capita così di incassare alzate di sopracciglio di muto rimprovero dal volenteroso studente che non condivide il mio scetticismo sulla frettolosamente celebrativa memoria - con contorno di eventi di massa - sui venti anni dalla 'caduta' del muro di Berlino. Mi succede altresì di inserire intenzionalmente, nel bel mezzo del lavoro su un testo letterario, nel delicato passaggio dalla contestualizzazione alla storia della ricezione (il testo letterario è La parabola degli anelli, da Nathan il saggio di Lessing, il quale a sua volta rielabora una novella di Boccaccio), la parola "minareto" e di ricevere in cambio, dallo stesso volenteroso studente, la domanda "Ma che è un minareto?". Alla domanda viene data una risposta, che parte, come ritengo doveroso e proceduralmente corretto, dal suo significato originario, per poi allargarsi a contesti d'uso e connotazioni del termine.
Perché scrivo questo? Perché due letture, nella giornata di ieri, mi sono giunte come provvidenziali in un momento in cui la confusione sulle parole nell'idioma italico fa impallidire anche il ricordo più traumatico di Babele. Entrambe vengono, per così dire, dagli spalti. La prima, in ordine di lettura, è il primo capitolo del bellissimo La Pacciada del mio antico e sempre attuale amore Gianni Brera e di Luigi Veronelli. Nel primo capitolo, dal titolo che è un ossimoro efficacissimo, I puri bastardi che noi siamo, Brera riporta la frase di Guicciardini che amava menzionare di frequente "non havvi genio sine ibridatione". Il capitolo è una dotta, affascinante, esilarante, filologicamente e storicamente rigorosa ricostruzione della storia dei Lombardi.
La seconda lettura è questo articolo di Gian Antonio Stella, I fischi in campo a Balotelli e la colpa di sentirsi italiano. Gian Antonio Stella chiama le cose con il loro nome, anche lui con quel rigore filologico e quella pertinenza lessicale, che disarmano qualsiasi ipocrisia.
Consiglio entrambe le letture. Per me sono state un incoraggiamento a proseguire il cammino intrapreso.
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