Sei anni fa, Giacinto Facchetti
Hommage a un hidalgo
Quando ritornavi a più riprese nelle innumerevoli conte che i miei fratelli facevano con le figurine Panini, quando snocciolavo il tuo nome, insieme a quello degli altri tuoi compagni delle imprese della Nazionale, quando ammiravo le tue falcate nelle riprese televisive, rigorosamente in bianco e nero, delle tenzoni calcistiche nelle quali ti muovevi con innata eleganza e schiva sicurezza, ancora non sapevo che un giorno – proprio ieri - il mio Quijote junior mi avrebbe cercata in cucina, con gli occhi tristi e la solennità e la ricerca della condivisione del dolore di chi comunica la perdita di un familiare: “Giacinto non ce l’ha fatta”. Sgorgata dal cuore, subito la domanda: “Papà lo sa?”: eri diventato quasi uno di famiglia. A casa ti ho spesso sentito chiamare “Giacerto” dal Quijote senior, che ha arricchito la lista dei tuoi nomignoli, Cipe, Olmo, con questa scanzonata e affettuosa versione romana dell’eterna interitudine. Il timore sul tuo stato di salute dopo la partita con la Roma, con quel 4 a 3 che la cabala della palla tonda già inquadra nella storia, allorché i calciatori della tua squadra di sempre hanno immediatamente pensato a te, recandoti in ospedale la Supercoppa appena conquistata. Voglio renderti omaggio, hidalgo senza tempo, per aver reso concrete parole purtroppo inattuali (quousque tandem, bravi travestiti da tifosi e al soldo di quella sempre gravida volgarità che oscura il Belpaese e mira a tutto livellar nel fango, deve spingersi la vostra menzognera raffica di insulti?): nobile onestà e quieta grandezza. Winckelmann sarebbe forse contento di veder ripresa, con una significativa variazione sul tema, la formula che seppe magistralmente coniare per l’arte. C’è arte, eccome, anche nello sport al quale hai saputo donare la tua plastica classicità nel praticarlo e la nobilissima onestà nel viverlo.
Anna Maria Curci, martedì 5 settembre 2006
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