Era ora che questo blog, che si è occupato pìù volte della scrittura di Franz Krauspenhaar e che, soprattutto, è nato nel segno del tanto improbabile quanto resistente connubio tra passioni sportive e passioni letterarie, scrivesse del suo "romanzo autobiografico sull'Italia calcistica degli ultimi cinquanta anni", apparso nel 2011 per i tipi di perdisapop, La passione del calcio.
La passione è mobile: Krauspenhaar lo dichiara in apertura, intitolando così il primo capitolo, dal quale apprendiamo dell'avvincendarsi di passioni e tradimenti e della irremovibile continuità dell'avversione:
"Il calcio è una passione collettiva che si scarica nell’individuale. È come se gli appassionati, i malati di calcio, fossero tutti innamorati nel medesimo tempo, ma di persone che si fanno la guerra tra loro. È il tifo, un’infezione che diventa malattia cronica. È l’amore che dura una vita. «Mai cambiare squadra», così si dice. «È un controsenso, anzi un atto contro natura». Ma no, sappiamo bene che si può cambiare squadra per opportunismo. Ai piani alti, c’è qualcuno che abbandona la moglie per l’amante. Un’amante prezzolata, non c’è dubbio. Io sono stato uno di quelli che ha tradito. Sì, lo confesso. Ma non è stato per opportunismo, bensì per qualcosa di molto diverso. Qualcosa che toccava il cuore. Ero tifoso di un Milan che alla metà dei Settanta si trovava nel pantano della decadenza – ma viveva, lottava dal fango della
battaglia –, poi la passione discese, inesorabile, venne Berlusconi e cambiò tutto. Il Milan che avevo conosciuto non era più lui. E anni dopo, da adulto, mi appassionai all’Inter, che avevo sempre ammirato più che odiato, ché l’odio era sempre stato rivolto alla Signora Juventus. Tradii dopo tantissimo tempo di distacco. Dell’Inter del nuovo millennio amai la sfortuna, gli sforzi inutili, la faccia da gregario ostinato di Héctor Cúper. Non ero nato per la vittoria, con chiunque fossi." (pp. 13-14)
Tra passioni e partite, cronache e visioni, il libro di Franz Krauspenhaar traccia il cammino affiancato di autobiografia e storia del nostro paese. Storia scritta dagli spalti o dalla postazione dinanzi a uno schermo televisivo. La prospettiva vi sembra limitata? Niente di più falso; i nomi dei capitoli (La disfatta di Corea; la Grande Inter, Il Sessantotto, la Juventus; Il Catino di San Siro negli anni di piombo; Il distacco dal rosso e dal nero; La Romania nel '77; Gigi Riva, il rombo di tuono; Maradona sketches) schiudono immediatamente un orizzonte di respiro ampio, nel quale toni epici e osservazioni sociologiche arricchiscono una ricostruzione veritiera e del tutto affidabile - da coetanea di Franz Krauspenhaar sguardi, ricordi e percezioni, bilanci di medio termine, per dirla con le parole di De Bruyn, me lo confermano.
Con Franz Krauspenhaar ho scoperto di condividere un'altra passione, quella per la scrittura di Gianni Brera. Una passione motivata e argomentata, come dimostra questo passaggio dal capitolo "Gianni Brera e il golden boy":
"Nel '68 Sivori viene ceduto, e il Milan torna a vincere dappertutto. Il simbolo del nuovo calcio italiano è Gianni Rivera, golden boy, ma anche abatino per il sarcastico giudizio del geniale Gianni Brera, scrittore finissimo, un Gadda che fa vedere le trippe più che di se stesso della selvaggina di cui, animale padano voracissimo di vita sport scrittura e cibo e vino, si nutre in lunghe scampagnate, sia fatte per suo conto che per la tivù dell'era Bernabei. Famosa e godibilissima, una puntata del '57 delle scorribande per l'Italia dello scrittore-regista torinese Mario Soldati, dove alla trattoria Ferrari di Pavia assiste e commenta la mondatura delle rane. Brera è di San Zenone Po, verso Stradella, è di quelle genti venute e situate negli acquitrini, dove si coltiva il riso, e dove le province di Pavia e Vercelli quasi si uniscono, Brera è figlio di un'atavica fame - d'altronde le rane sono animali della fame come i gatti, animali dei campi acquitrinosi come i gatti lo sono delle colline venete e toscane. Brera è tifoso delle due milanesi, equidistante, critico impietoso, ma anche avvolgente, come se la sua stazza, che pare da ex-lottatore di greco-romana (ha il fisico simile a quello dell'attore italo-francese Lino Ventura), potesse avviluppare le due grandi milanesi in un abbraccio che è affettuoso ma talvolta anche stritolante. Dunque Brera, il re dei giornalisti sportivi, questo straordinario prosatore e inventore di neologismi - tra cui libero e centrocampista - vede Rivera come una specie di figlio intelligente ma anche degenere".(pp. 45-46)
Come prosegue la storia di questo confronto, come si snoda il romanzo di cinquanta anni attraverso la passione del calcio? Questa è una scoperta che raccomando a tutti, anche a coloro che dal mondo del calcio si sono allontanati, spaventati, inorriditi, agnostici o indifferenti.
Anna Maria Curci, 23 dicembre 2012
_______________________________________________________________
Franz Krauspenhaar, La passione del calcio, Perdisa 2011
Ultimi commenti