Afarin Sajedi
inveni portum…: ossia ho trovato il porto, un rifugio, o meglio ancora un approdo, in questo esistere del distacco dalla vita, dalla morte, da me e dagli altri, da ogni cosa si veda come concausa di questo nostro convulso andirivieni dentro la storia che si è fatta un semifreddo da servire al cucchiaio, senza misura e senza metrica, sul metrò al ritorno, sulla strada di casa che spesso si perde, per una cosa da niente, come un distico, epitaffio a ciò che si era senza rammentare ciò che è stato, ciò che è l’essere.
La nuova proposta di Anna Maria Curci, non nuova alla messa in scena di un parco in cui i mostri siamo tutti noi, sembra presentarsi proprio così, netta e tagliente, con una struttura, il distico, che volutamente intende portarci indietro, nello spazio e nel tempo, in un congegno di parole che neutrale non risulta affatto perché, lontano da letterarietà e spiritualismo, impugna la parola e con quella taglia, di netto, la testa alle bestie che impazzano nei nostri incroci. I toys center. Questo infatti sembra essere diventata la vita, un grosso giocattolo a-tragico in cui c’è tutto fuorché l’essenziale. Fin dall’esordio sembra di entrare in un anello a due piste, una struttura in cui il due si fa struttura di ricircolo, la cui organicità sembra essere assicurata dall’espediente formale per cui ogni gruppo di distici, come si vede nel raggruppamento che ho proposto, sembra andare a ripescare il contenuto teatralizzante del gruppo in coda, rimescolando le carte e questo avviene con ogni gruppo, imponendo alla messa in scena un cambio di fondali in cui si sviluppano le frecciate a un modello chiuso, alla falsa strategia del sistema odierno della vocabolarizzazione con cui ogni parola è vuota speculazione, pontificato di un dis-guido a cui mancano temi e si teme che qualcuno comprenda il niente che sta dietro ogni faccia e facciata.
Fernanda Ferraresso
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