Luigi Simonetta, Rhinocerité romaine (Bürgermeister)
Rhinocérité romaine (Farsa Eterna in 3 quartine)
I. Sospensione
Bürgermeister di cruenta memoria
diramano dispacci. Disambigua
chi sa che la maieutica s’è fatta
badante, presidia il fiocco di neve.
II. Smantellamento
Bürgermeister di cruenta memoria
dispensano interviste, blaterano
di set a cielo aperto, pur sventrando
il lavoro e la storia sotto abete.
III. Sgombero
Bürgermeister di cruenta memoria
diramano dispacci, sgomberano.
Protesta chi sa che altro è ricchezza:
diversità, non laida spartizione.
Anna Maria Curci
Le tre quartine della "farsa eterna" di Rhinocérité romaine, alla quale Luigi Simonetta dedica la sesta delle immagini create per le Nuove nomenclature, prendono spunto da eventi verificatisi a Roma tra l'inverno e l'estate 2012, ma sono condannate a muoversi tra passato e presente. Ben consapevoli, per dirla con le parole scritte mezzo secolo fa da Cristina Campo nella lettera inviata a Leone Traverso il 29 maggio del 1963 - "Abbi pazienza – ma Roma è una grande farsa ininterrotta (ed è un bene poter girare mascherati)" - di essere sballottate tra farsa ridicola e arroganza schiacciante, tra le spranghe e le purghe dell'indifferenza e le parate della spartizione, provano a garantire un bene tra i più bistrattati: la memoria di fatti e parole, di violenze e prevaricazioni.
Villa Palombara, Cristina Campo e Ilaria Beltramme
In attesa di domani pomeriggio, quando, in occasione dell’incontro con Ilaria Beltramme all’Associazione “Villaggio Cultura – Pentatonic”, discorreremo della sua opera più recente, La società segreta degli eretici (Newton Compton, Roma 2013), romanzo storico di impianto sicuro e dalla trama avvincente, viaggio nei secoli e in luoghi ‘fatali’ della storia europea, ricostruzione attenta a veridicità e verosimiglianza e, insieme, tributo alla conoscenza non privo di un vero e proprio atto d’amore per “l’enorme ibrido” (così Cristina Campo definiva la Città Eterna), mi soffermo su un dettaglio che, da un capitolo del romanzo di Ilaria Beltramme, mi conduce indietro a una lettura di qualche tempo fa, serbata nella memoria e ora riproposta qui.
Il luogo in questione è l’ingresso a Villa Palombara – Villa Palombara si intitola il capitolo del romanzo di Ilaria Beltramme: quattro pagine, da 176 a 179, che rappresentano una pausa significativa e fitta di legami con il passato e di ponti con l’avvenire nel tumulto degli eventi narrati – altrimenti conosciuto come Porta Magica. A questo luogo Cristina Campo dedica una parte del suo Omaggio a Borges, che si può leggere dalle pagine 205 a 208 del volume Gli imperdonabili, e del quale propongo oggi la lettura di alcuni brani:
“Si sa che Roma, l’enorme ibrido, ha di tutto: basiliche sotto il livello dell’acqua, una piramide, giardini pensili – e un sanatorio sul quale un’alta torre di ferro brucia nero petrolio da un’alba all’altra. Pochi sanno che in una piazza tristissima, tra le meglio sfigurate dai secoli, dall’urbanistica, dalla vita, Roma ha una «rovina circolare».
La forma di questo piccolo rudere bruno-terra è a raggera*, o per dir meglio a foglia di palma: diversi bracci, un tempo forse corridoi, convergono a una piccola porta. Esso fu un minuscolo tempio alchimico*, una cappella di cabalisti cristiani edificata nel secolo XVII dal Marchese di Palombara e frequentata, fra personaggi più o meno mal conosciuti, da Cristina di Svezia. Oggi, d’intatto non resta che la porta. È ricordato infatti, quel monumento come la Porta Magica.
In realtà quella porta, accecata di mattoni rossi, non porta più a nessun luogo. Pagina sigillata, solo intorno agli orli, lungo la chiara cornice di un marmo scorrono ancora parole: simili a uccelli neri e bianchi che, immobili sulle, si reggano a mezz’aria fra la terra e il cielo: Quando in tua domo nigri corvi partoriente albas columbas tunc vocaberis sapiens… Qui scit comburere aqua et lavare igne facit de terra coelum et de coelo terram pretiosam…
Ho detto della piazza dove si trova questa rovina. Non ho detto che è vicinissima alla Stazione Centrale, vale a dire, in una metropoli, ad uno dei più infetti scoli urbani. La piazza stessa è una spirale di gironi. All’esterno c’è la parete di rosse carni, piumaggi madidi, scaglie, sozzi grembiuli (ma anche corolle di puro ghiaccio, glauche foglie e radici) di un mercato permanente. Più all’interno, un parco per bambini: nient’altro su quel che resta di aiuole, che un villaggio di cartapesta pitturato alla brava, con intenzione apertamente umoresca (il bambino d’oggi deve capire che il gioco non è più una visione, è un ammicco). […]
Quella piazza può sembrare il luogo geometrico di coloro che Proust chiamò i collezionisti di maschere del reale: gli scrittori di parvenze, gli scrittori realisti. […]
C’è, però, la Porta Magica. È chiaro che a tali scrittori essa si renderebbe subito invisibile; ed è ancora più chiaro che senza la Porta Magica l’intera piazza scompare. Dei gatti alti sui rami non resterebbe, in pochi istanti, che il riso – come quello del Ghignagatto di Alice, come quello forse che gli alchimisti attribuivano a Mercurio. Del sedimento putrido del mercato resterebbe nell’aria un uno spruzzo di neve: l’anima del prunus bianco. E di umano una statua funeraria, riversa là sul braccio di rovina, il berretto sul viso diventato maschera d’oro. (Horti magici ingressum Hesperidum custodit draco et sine Alcide Colchicas delicias non gustasset Iason).
In quella piazza pitagorico-viscerale pensai a Borges: al suo gesto di ierofante che ripete quello dell’uomo figurato, come egli stesso racconta, sopra la mappa gnostica: un indice teso al cielo, uno alla terra. Ricordai la straziante, l’impassibile parola con la quale egli ha forse sigillata la Porta Magica: «Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono».
(Chi condivide oggi quel passato? Chi quell’alfabeto di simboli? Vi è un passato? Vi sono simboli? Dove, dunque, il nostro linguaggio?)”
Da: Cristina Campo, Omaggio a Borges, in: Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano 1987, 205-207)
Oggi, 4 marzo 2013, a 50 anni dalla morte di William Carlos Williams, ripropongo la lettura della prima puntata della rubrica "Tra le righe" su Poetarum Silva, dedicata alla traduzione di una sua poesia. qui.
La nona tappa della rubrica "Tra le righe", che mette a confronto traduzioni, propone oggi, nella traduzione di due voci femminili, quella di Cristina Campo e quella di Liliana Cutino, Heimweh (Nostalgia) di Eduard Mörike.
Di Eduard Mörike, voce irrequieta e di rara sensibilità nel panorama del Biedermeier, questo blog ha già scritto, sia a proposito di un'altra lirica, anch'essa tra quelle tradotte da Cristina Campo, Im Frühling (A primavera), sia a proposito della figura di Elizabeth nel romanzo di Mörike Maler Nolten (Il pittore Nolten).
La quinta tappa del percorso che Poetarum Silva ha intrapreso tra poesie e traduzioni tocca la Ballade des äußeren Lebens di Hugo von Hofmannsthal. Sono tre, stavolta, le traduzioni dei versi di Hofmannsthal proposte all'attenzione di chi legge. Si tratta, rispettivamente, delle traduzioni di Leone Traverso, di Cristina Campo (da: Cristina Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991, p. 108), di Elena Croce (da: H.von Hofmannsthal, Canto di vita e altre poesie, Einaudi, Torino 1971). Già nella traduzione del titolo appaiono evidenti l'ampiezza e la diversità delle scelte nella resa-mediazione-interpretazione dei versi di Hofmannsthal. La prosecuzione della lettura riserva ulteriori sorprese.
Su Poetarum Silva parte oggi la rubrica Tra le righe, che, sulla scorta dell'affermazione di Antoine Berman, "la traduzione è nella sua essenza plurale etica dell'ascolto", si propone di affiancare traduzioni di testi poetici. Ho pensato di dedicare la prima tappa a due traduzioni di The Widow's Lament in Springtime di William Carlos Williams. La prima è di Cristina Campo, la seconda è di Luigi Bonaffini. Testi e note biografiche di poeti e traduttori possono essere letti qui.
Quella che viene comunemente definita ‘emergenza educativa’ pervade, talvolta come silenzioso fiume sotterraneo, talvolta con rumoroso e incontrollabile zampillo, le riflessioni quotidiane e, con regolare ancorché preoccupata frequenza, le conversazioni con chi avverte come un dovere non ignorarne i segnali.
La tentazione è quella di rifugiarsi nel mondo delle ‘anime belle’, in cerca di un rimedio per il senso di inattualità sonoramente schiaffeggiatoci dai più deboli, fagocitati ovvero stritolati dai meccanismi del dominio di turno ‘à la mode’.
Con sorpresa, allora, e insieme con un senso di segreta conferma di intuizioni, si scopre, proprio addentrandosi nel mondo timbrato come rarefatto, una familiarità con le tenzoni e le tensioni con il potere di turno. Questo è quello che mi è capitato leggendo una lettera, datata “prima del 10 marzo 1956”, che Vittoria Guerrini (Cristina Campo) invia a Leone Traverso:
«Iersera è stato con me fino all’una di notte l’avvocato di Danilo Dolci. Anche lui comunista, mi dicono, o press’a poco. Serio, severo, attentissimo – e di una strana innocenza. Non so cosa ci sia dietro, ma un uomo. Aveva 38 ½ di febbre, all’una e mezzo incontrava Levi, e stamattina alle nove presiedeva una riunione. Mi mostrava una sua arringa, e sopratutto i documenti falsi o tendenziosi, che ha chiesto per controbatterli (66.000 lire al Tribunale di Palermo!). Non ho chiuso occhio tutta la notte. Oggi l’ho fatto incontrare con Malaparte (hanno entrambi il telefono sorvegliato – ci si diverte moltissimo). Danilo sta in cella coi banditi di Montelepre; Santi Savarino ce l’ha mandato, sostenuto da gente come Frank Coppola e altri gangsters americani… Tutta l’ex malavita di Chicago si è associata alla mafia, che arriva ormai fino alle Alpi, capeggiata da Scelba […]… Scelgo qua e là fra il cumulo delle notizie, alcune non potrei darvele che a voce. L’avvocato teme l’uscita di Danilo dal carcere: è quello il momento pericoloso. Il processo è (come dice) “un rapporto di forze” – prestigio da un lato, corruzione dall’altro. Quoziente imprevedibile.»
Cristina Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953-1967), Adelphi, Milano 2007, 48-49
Ho avuto in dono, anni fa, un libretto di poesie - scelte e introdotte da Hermann Hesse - di Eduard Mörike, poeta tedesco e voce insieme limpida e complessa del Biedermeier. Non mi ha stupito ritrovare tra le liriche scelte da Hesse una poesia tradotta, già nell'edizione del 1948, da Cristina Campo, che di Mörike scrisse:
“…..Solitario e purissimo cantore.. nelle sue liriche limpide note d’uccello, notturne variazioni d’arpe eolie, ove natura e religione,paganesimo e cristianità, amor sacro e profano fonde l’ansiosa innocenza di un animo perennemente fanciullo..che amava Mozart, parlava con gli alberi e faceva dell’amicizia una religione…..”. Ripropongo qui traduzione di Cristina Campo (da La tigre assenza) e originale di Eduard Mörike. Il testo tedesco fu musicato da Hugo Wolf come Lied per pianoforte e voce solista.
A primavera
Qui disteso sul colle, a primavera,
la nuvola m'è ala,
un uccello mi guida.
Ah, dimmi, unico amore,
dove sei tu, ch'io ti rimanga accanto!
Ma, come i venti, tu non hai dimora.
S'apre il mio cuore come girasole
e si gonfia bramoso e si dilata
in amore e speranza.
Che vuoi da me, primavera?
Quando avrò pace?
Le nuvole vagare vedo, e il fiume:
il bacio d'oro del sole
mi penetra nel sangue più profondo.
Ebbre di meraviglia le pupille
socchiuse quasi per torpore – solo
l'orecchio origlia ancora un ronzo d'ape.
Perduto nei miei sogni
mi stringe nostalgia non so di che,
e non è voluttà, non è lamento.
O cuore, dimmi tu
quali ricordi intessi
nel crepuscolo verdeoro dei rami! –
Giorni antichi, indicibili...
Im Frühling
Hier lieg’ ich auf dem Frühlingshügel
Die Wolke wird mein Flügel,
Ein Vogel fliegt mir voraus.
Ach, sag’ mir, alleinzige Liebe,
Wo du bleibst, daß ich bei dir bliebe!
Doch du und die Lüfte, ihr habt kein Haus.
Der Sonnenblume gleich steht mein Gemüte offen,
Sehnend,
Sich dehnend
In Lieben und Hoffen.
Frühling, was bist du gewillt?
Wann werd’ ich gestillt?
Die Wolke seh’ ich wandeln und den Fluß,
Es dringt der Sonne goldner Kuß
Mir tief bis ins Geblüt hinein;
Die Augen, wunderbar berauschet,
Tun, als schliefen sie ein,
Nur noch das Ohr dem Ton der Biene lauschet.
Ich denke dies und denke das,
Ich sehne mich und weiß nicht recht, nach was.
Halb ist es Lust, halb ist es Klage.
Mein Herz, o sage,
Was webst du für Erinnerung
In golden grüner Zweige Dämmerung? -
Alte unnennbare Tage!
Eduard Mörike, Im Frühling, in Eduard Mörike. Die schönsten Gedichte. Ausgewählt von Hermann Hesse,, Insel Verlag, Frankfurt am Main und Leipzig, 1999: 34. Traduzione italiana di Cristina Campo, in C. Campo, La tigre assenza, a cura e con una nota di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi, Milano 1991.
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