Era da un po’ di tempo che “Loretta”, la mia etrusca “compagna dell’Internazionale”, insisteva perché andassimo a vedere Lebanon. Ieri sera è successo. Avevo provato a dissuaderla, con la vigliacca alternativa del film, appena uscito, del nostro regista preferito. Loretta, si sa, è soavemente caparbia come tutte le anime inattuali. Sono solo riuscita a cambiare l’orario di appuntamento e, dunque, di visione della pellicola, adducendo le mie reali pre-senili preoccupazioni circa le ‘botte di sonno” dinanzi anche a capolavori cinematografici proiettati dopo le 22,30.
Con la lingua di fuori, dopo uno slalom tra piazza Sonnino e piazza Trilussa tra i soliti ignari di tutte le età che si affollavano a rendere l’omaggio del sabato al rito di massa della loro utile resa, arriviamo, nella storica formazione a quattro, nella sala nella quale proiettano il film, proprio nel momento in cui appare l’immagine iniziale: un campo di girasoli e la scritta “3 giugno 1982, prima guerra del Libano”. Primo giorno di guerra della prima guerra del Libano. Ci sediamo e ci troviamo senza soluzione di continuità a sobbalzare nel fracasso del Centurion. Su una delle pareti del claustrofobico ammasso leggiamo, idealmente insieme al giovane Shmulik, “l’uomo è d’acciaio, il carrarmato è ferraglia”. Come Shmulik l’artigliere, ci rendiamo conto che non possiamo uscirne. Quello che vediamo e sentiamo nei minuti successivi non prevede vie d’uscita. Anche noi, “Rinoceronte”, come il Centurion viene chiamato in codice, siamo collegati con l’esterno solo via radio, con il decisionista Jamil, “Cenerentola” in codice, e, soprattutto, con gli occhi sbarrati di Shmulik, addetto al puntatore.
Non facciamo un fiato, contrariamente alle nostre abitudini non riusciamo a tirar fuori neanche un commento di quelli dei nostri, buttati lì con la consuetudine complice di chi condivide l’inattualità.
C’è un passaggio che mi turba particolarmente. Il falangista traffichino che ha promesso di condurre in salvo dall’impasse il Centurion e i suoi occupanti, entra nel carrarmato, ennesimo visitatore tra i vivi e i morti. Dopo essersi accertato che i soldati israeliani possono comunicare con lui esclusivamente in un inglese stentato, si avvicina al prigioniero siriano catturato e gli sussurra nell’arabo della sua varietà regionale, incomprensibile agli occupanti del Centurion, quale fine gli è riservata. Gli orrori lenti e indicibili, illustrati con compiaciuta crudeltà dal falangista, sono interpretati dal pilota Yigal, che ha studiato l’arabo a scuola, come rassicurazioni. Tanto più incomprensibile risulta pertanto l’attacco di panico furibondo del quale è preda il prigioniero siriano all’uscita del falangista dai pochi metri cubi del “Rinoceronte”.
Die Sprache ist die Strafe, la lingua è la pena. Se non media, lo è, penso. Se non fa da ponte, diventa condanna.
Seguiamo evoluzione ed epilogo della vicenda e comprendiamo perché il film, dopo una settimana di programmazione nei grandi circuiti, vada ora cercato con la soave testardaggine di Loretta.
Il fotogramma finale ci sommerge, forse un po’ ci conforta, certamente non ci anestetizza. Ripenso ai versi che ho scritto qualche anno fa.
Regalami un girasole
Regalami un girasole,
anima bella,
regalami un girasole.
Un girasole per il freddo dentro
Un girasole per lo sguardo ostile
Antidoto al dirupo
Divertito sberleffo
Gratuito dono
Nel segno dell’altrove
Regalami un girasole,
anima bella.
Schenk mir eine Sonnenblume
Schenk mir eine Sonnenblume,
schöne Seele,
schenk mir eine Sonnenblume
Eine Sonnenblume für die Kälte drin
Eine Sonnenblume für den feindseligen Blick
Der Kluft ein Gegengift
Schneidet sie eine vergnügte Fratze
Im Zeichen des Woanders ist sie
kostenloses Geschenk
Schenk mir eine Sonnenblume,
schöne Seele.
Anna Maria Curci
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