Cristina Bove, Una per mille
Nota di lettura di Anna Maria Curci
Raccontare la vita nelle sue manifestazioni più diverse: se questa formula, da un lato, riassume ciò che pungola chi scrive e attrae chi legge, essa non spiega, dall’altro, le ragioni dell’impronta forte e durevole che determinate narrazioni sanno consegnare all’immaginario e alla memoria. Dice il contenuto, l’oggetto della narrazione, ma non ne dispiega il come. È il come si racconta, ovviamente, a fare la differenza; qui non contano le ricette a buon mercato, le pillole di saggezza anche recentemente dispensate via tubo catodico, le messe in guardia dall’autobiografismo e le distillazioni varie – con l’erborista ovvero dispensatore di grappa letteraria di turno in versione “Così parlò…” – di sottili distinguo circa realismo, verosimiglianza, scelta e trattazione della materia grezza narrativa. È la verità a fare la differenza, quella che Albertine, nel finale di Doppio sogno di Schnitzler, tiene ben distinta dalla semplice realtà, fosse anche la realtà di un’intera vita umana: nel romanzo di Cristina Bove è la verità a guidare sguardo e resoconto, rievocazioni e considerazioni.
Tornando, tuttavia, all’enunciato iniziale di questa nota, è necessario qui innanzitutto porre al plurale l’oggetto della narrazione, perché non di una vita si parla, ma di tante vite, delle linee successive o parallele di chi narra, che si definisce, come recita esplicitamente il titolo, Una per mille. È, inoltre, delle vite altrui che si intesse, procedendo nella narrazione, la trama del romanzo. Sono le esistenze altrui, che attraversano ovvero che rendono sempre piena di sorprese, nutrendola perfino, come nel caso dei quattro figli, la vita (le vite) dell’io narrante. Al plurale sono prese in considerazione, ancora, le dimensioni dell’esistenza, con un’attenzione rivolta all’altro da sé, all’altrove, a modalità ‘altre’ di accesso alla conoscenza, alla dialettica tra istinto naturale e coscienza.
Il duetto tra le due voci più in vista, nell’esistenza così come nella scrittura, dell’io narrante – lo sdoppiamento, si badi bene, è solo una delle sue manifestazioni - accompagna, disegnandone l’articolazione, lo scorrere di eventi narrati, pensieri e ricordi. Si intreccia con considerazioni, sorridenti e ironiche, autoironiche, sul padroneggiare, scrivendo, la materia narrativa.
I luoghi, Napoli, Roma, i colli Albani, Tunisia, Israele, Costarica, serbano e riportano con la forza della verità tutte le vite che li hanno attraversati.
Chi legge, si congeda dall’io narrante con riconoscenza, con un arrivederci e, nell’attesa della prosecuzione del cammino, si volge, tornando indietro, all’incipit del romanzo, bellezza e verità:
«L’uomo nero era il carbonaio del fondaco di via San Gregorio Armeno. Viveva nella stalla con i cavalli alti e neri, sempre a masticare biada con la testa nel sacco. Lui invece il sacco lo portava sulla testa a fargli da cappuccio fino alla schiena.
Sua moglie, guercia e butterata, vendeva il ghiaccio tritato in un grottino nel quale si scendevano tre gradini guerci anch’essi.
La bambina aspettava che lo grattasse dal lingottone translucido e ne riempisse il bicchiere di carta, poi la spruzzata di cedro o granatina. Meglio ancora solo ghiaccio, ché poi la nonna ci metteva le amarene sciroppate.»
(Cristina Bove, Una per mille, Edizioni Smasher 2013, p. 5)
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