Controsogno
Eccomi qua – disse la voce –
clangore per le scale
il chiavistello un nome da girare
aveva atteso ritta alla finestra
il passo ignoto
nel petto accelerato il ticchettio
straniera la sua ombra
sfiorava il corrimano
lei seduta nel corpo ad aspettare
giunse che l’aria già lo conosceva
l’aveva assaporato anche nei gesti
il tuffo nel suo nome detto piano
e fu improvviso il tocco, si riscosse
col cuore che suonava
più forte della sveglia
a ridestare
Cristina Bove (da: Mi hanno detto di Ofelia, Smasher 2012, p. 11)
Gegentraum
Hier bin ich - sagte die Stimme -
Schall im Treppenhaus
der Riegel ein herumzudrehender Name
sie hatte aufrecht am Fenster auf den
unbekannten Schritt gewartet
in der beschleunigten Brust das Ticken
fremd streifte
ihr Schatten den Handlauf
sie saß im Körper und wartete
er kam, da kannte ihn die Luft bereits,
das Tauchen in seinen leise ausgesprochenen Namen
hatte sie auch in den Gesten gekostet
und jäh war die Berührung, sie kam wieder
mit dem Herzen zu sich, das lauter
klingelte als der Wecker
zum Wiederaufwecken
Cristina Bove
(traduzione di Anna Maria Curci)
Post-fazione
di Francesco Marotta
La poetica di Cristina è un attraversamento lucidissimo della grande tradizione italiana novecentesca, ma a “testa sempre molto alta”, guardando “avanti” e non “intorno”. L’intorno suggestiona e, inconsciamente, finisce per legare il “passo” alla fascinazione dei modelli, dei monumenti, o dei ruderi, splendenti che popolano il paesaggio circostante; l’avanti è la fedeltà più intima e conseguente alla “propria” cadenza, al timbro della “propria” voce – il che non significa spogliarsi ad ogni costo delle atmosfere, dei profumi e dei suoni di cui, comunque, ci si impregna nel “passaggio”. Tutto sta nelle “strategie di controllo”, non solo formali, che si mettono in atto, per impedire che il “carico imbarcato” finisca per sostituirsi alla “sostanza” primaria di cui siamo unici e irripetibili portatori. Il testo deve restituire proprio quest’ultima, o non è: sarà anche uno splendido esercizio, ma la “calligrafia” non è, e non sarà mai, poesia. Non è e non sarà mai “stile”, ovverosia la cifra più specifica di una “voce”.
Nelle poesie di Cristina Bove di calligrafico non c’è assolutamente nulla, il che significa che l’attenzione critica alle procedure da cui la forma si origina è ben vigile, attiva. E non solo a livello cosciente, a mio modo di vedere – perché esiste anche una “forma occulta” (che ha i suoi tempi, i suoi modi e la sua sintassi) attraverso la quale l’inconscio, comunque, veicola la “materia poematica”, accentuando o declassando taluni vettori in virtù di meccanismi che solo l’ascolto più attento riesce a percepire e a restituire.
Ed è proprio una “lettura/ascolto” così configurata che permette di verificare l’intersecarsi dei due piani. Da una parte il controllo dei livelli di “vocazione emozionale”; la “restrizione” del campo di azione della tensione che, lasciata a se stessa, sfocerebbe, inevitabilmente, nella “commozione”, nella ricerca dell’effetto e della “complicità”; la chiusura di alcuni spazi verbali (con il significato polverizzato e disseminato ad arte nel gioco riflessivo dei significanti) – tutte strategie dove il “pensiero poetico” agisce in piena consapevolezza, con estrema decisione. Dall’altra, le cadute di ritmo che spezzano una cadenza e frustrano l’aspettativa facile del “canto”, aprendo, contemporaneamente, “spazi impensati” di riflessione che solo il lettore può colmare; la “natura ricorsiva” di alcune strutture testuali, con la conseguente insistenza su determinati termini che accentuano la reiterazione dell’immagine o dell’azione; la percezione, fuori controllo, dell’incompiuto, e l’incompiutezza “perturbante” che affiora a increspare l’ordine del discorso o quella che appariva, a tutta prima, come la più “naturale” delle aperture e conclusioni di senso – tutte “emersioni” a fior di lingua di un implacato fluttuare inconscio, del lento, persistente trascorrere di una materia che è già “oltranza”. Cioè poesia.
(da: Cristina Bove, Mi hanno detto di Ofelia, pp. 70-71)