Andrea Zanzotto e il paesaggio - foto di Francesco De Bastiani
La presenza di Hölderlin nella poesia italiana reca tracce visibili e significative, dal dialogo a distanza con Giacomo Leopardi, ben evidenziato dallo studio di Elena Polledri, al confronto ravvicinato, spesso tramite l’esercizio paziente della traduzione, con la sua opera: Stefano D’Arrigo, Giorgio Vigolo, Leone Traverso, Andrea Zanzotto sono solo alcuni dei nomi da menzionare in tale contesto. Il tributo di Zanzotto, che del premio letterario Friedrich Hölderlin fu insignito nel 2005, al poeta tedesco è ampio e dettagliato e merita di essere riproposto alla lettura.
Andrea Zanzotto
Hölderlin e la traduzione
Il mio primo incontro con Hölderlin è avvenuto nel momento in cui stavo entrando all’università, avevo diciassette anni e iniziavo le frequenze a Padova. Un amico mi fece avere una vecchia edizione di Hölderlin in caratteri gotici, assicurandomi che avrei riconosciuto senza alcun dubbio un grande poeta, e io cominciai, col poco tedesco che avevo, a decifrarlo. ... Continua su Poetarum Silva, qui
La quinta tappa è dedicata al genio di Andrea Pazienza. Qualcuno si domanderà quale sia il nesso tra Paz e la rubrica “In Apulien”. Andrea Pazienza è nato a San Benedetto del Tronto, è morto a Montepulciano, all’età di tredici anni ha cominciato a frequentare il liceo artistico a Pescara, il suo itinerario artistico ha legami profondi con la città di Bologna e l’esperienza del DAMS. Allora? Allora è lo stesso Andrea Pazienza a dichiarare la sua appartenenza alla terra paterna, in particolare alle località di San Severo e San Menaio, entrambe in provincia di Foggia. Continua su Poetarum Silva, qui
Oggi, 26 agosto 2012, a un anno dalla scomparsa di Francesco Albano, Yzu, sarà presentato a Pignola dalla madre, Ninetta Perone, il testo A te, Francesco mio. Con il pensiero sono lì, nel paese natale di mia madre, dove ho trascorso da bambina tanti giorni d’estate, dove ho visto Francesco neonato in braccio alla sua mamma. Ho trascorso l’alba a leggere il libro che Francesco, con il nome d’arte di Yzu Selly, pubblicò il 17 agosto 1999, cucuwàsh. Il nome della civetta nel dialetto pignolese racchiude un romanzo “da bere sorseggiando vino”, un itinerario articolato in dodici racconti e quattordici poesie, nel quale lo scrittore mescola le carte e scompiglia volutamente i numeri romani che precedono ogni composizione. Al lettore la scelta dell’ordine da dare al suo percorso di esplorazione del testo. L’esergo con i versi da La terra e la morte di Cesare Pavese e i tributi, sparsi e riconoscibili, riepilogati in parte nei ringraziamenti – tra questi, Buzzati, Kafka, Rimbaud, Blake, Joyce, Ovidio, Campana, Fortini, CCCP–Fedeli alla linea – scandiscono il libro della consapevolezza. La rabbia sacrosanta non è relegata alla condizione giovanile – a 28 anni Yzu lo dichiara esplicitamente – e la scelta di liberarsi dal cappio ha un prezzo pesante. In questo i versi della poesia XVI – L’ergastolano sono significativi: “Stanco un giorno del cappio che mi obbligava/ movimenti e mente mi misi in viaggio/ cercando antiche strade che obliassero/ questo vivere immobile in un tempo assente./ Tornato vivo presi a combattere/ immerso in una ragione tenace/ tentai d’affermare l’indicibile./ Come un criminale eretico/ sono stato costretto a camminare/ fra gli scherni e la derisione/ accusato di assassinii che legalmente/ compie il potere, quasi con candore.” (100-101)
Per questa giornata ho scelto i versi della composizione che, nella raccolta cucuwàsh, portano il numero II.
II
Le pietre e i giochi – Il bambino a sette anni
Da bambino raccoglievo le pietre
e ci giocavo. Gli davo forma.
Le facevo vivere in dimensioni
parallele alla loro concretezza,
perché ogni pietra narrava una storia.
Le loro forme erano così vere
da non poter far altro che sedermi
osservarle fra le mani e ascoltare.
Senza saperlo, di quel gioco
ero la parte più importante.
Una volta trovai l’isola
del minotauro, di teseo e arianna.
Dal lato opposto un drago spaventoso
mi soffiava fuoco negli occhi.
Trovai anche un pugnale turco
dalla lama ondeggiante e intarsiata.
La strana disposizione di alcune pietre
mi raccontò la vita di un brigante
ammazzato dai piemontesi; ecco le sue ossa.
Un’altra volta trovai tombe di barbari
sulla collina di ginestre.
Con gli amici e le nostre bimbe
andammo a smuovere quei cumuli di pietre.
Ci atterrì qualcosa e la luna enorme.
Corremmo a farci benedire
e fummo costretti ad aspettare
con la paura gonfia di lacrime
- il prete è impegnato, una scopa
a quattro e bicchieri di buon vino.
Il bambino aveva un paio di jeans rossi;
costrinse la madre a comprarli
col suo lagnare prepotente
al mercato assieme a una cinta anch’essa rossa
dalla fibbia difficile. Si sporcò.
Andò a giocare a pallone la sera stessa
nel campo sportivo di sabbia grigia
dimenticando il materno divieto:
“Nun t’gì a z’v’lià, ca t’accid’!’”
Poggiato contro la finestra
una guancia contro la grata fredda
un corpo adulto che preme alle spalle
chiede “Dov’è la luce”.
Accesala
tornò contro la finestra. Una curiosità
infantile pagata a un prezzo troppo alto.
Nonostante il recriminare di sua madre
non mise più quei jeans rossi; i gerani
sul suo balcone gli diedero sempre
fastidio, dopo, per quel rosso.
Fino alla consapevolezza.
La lezione di Paolo Chiarini
Apprendo dalla stampa la notizia della morte di Paolo Chiarini, nella sua città natale, Roma, lunedì 20 agosto 2012. Subito si affollano ricordi, riecheggiano parole, si materializzano libri e appunti al mio “inneres Auge”. Paolo Chiarini è stato il mio professore di lingua e letteratura tedesca alla “Sapienza”. Ancora oggi, quando ai miei studenti parlo della Drammaturgia di Amburgo di Lessing, della Romantische Schule di Heine, della Nascita della tragedia e delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, dell’espressionismo tedesco, non posso fare a meno di ripassare mentalmente i suoi libri, i suoi saggi, le sue lezioni su questi temi. Rileggere Brecht, che avevo 'scoperto' all’età di dodici anni recitando il ruolo di Svendson in una messinscena, scolastica sì, ma degna di un teatro off (avevamo Giovanna Bufalini come maestra e regista) di Quanto costa il ferro?, sulla scorta dei testi e delle parole di Chiarini è stata per me una vera e propria ‘scuola di domande’. Anche quando le nostre risposte – quelle dell’autorevole professore e quelle della studentessa appassionata e dubbiosa – divergevano, la lezione appresa si è trasformata in metodo.
Un ricordo risale ai tempi della preparazione alla quarta annualità di lingua e letteratura tedesca, esattamente dieci anni dopo la menzionata messinscena di Quanto costa il ferro? . Tra i libri oggetto di studio per l'esame c'era, allora, Brecht oggi (ed. Longanesi, Milano 1977); il volume raccoglieva le relazioni pronunciate in un convegno di 36 anni fa ("Incontro con Brecht", Alessandria 1976). Tra queste, un ruolo centrale doveva rivestire, per me studentessa alla soglia dell'ultimo esame nella disciplina principale del corso di studi scelto, l'intervento di Paolo Chiarini, mio professore. Il titolo dell'intervento, Un "classico inoffensivo"?, pone in maniera chiara la questione intorno alla quale ruota la relazione di Chiarini, il quale, già dalle prime battute, si chiede se alcune messinscene di opere di Brecht non ne restituiscano, in maniera assolutamente contraria alle intenzioni dell’autore stesso, una lettura 'neo-aristotelica', in fin dei conti rassicurante come 'catarsi traumatica' nel quadro di un rifiuto globale della società contemporanea. Chiarini cita Bernard Dort, il quale osserva, sul teatro di Beckett: «esso rassicura rievocando il peggio; la distruzione della tragedia si arricchisce di tutti i prestigi della cerimonia tragica e la derisione del linguaggio si esalta nel canto. [...] Recitando sulla scena l'impossibilità di vivere e quella di morire [...] ce ne libera immediatamente. L'orrore è sulla scena, vi si esprime pienamente, non è nella sala.» Prosegue, Chiarini, precisando: «Niente è più estraneo a Brecht di una siffatta concezione “liturgica” (sia pure in senso “laico”) dello spettacolo; e del resto non è un caso che i protagonisti del Living abbiano scelto, fra i suoi testi, quello in cui la connessione storica con fra il dramma e le sue origini sacre (Sofocle, il mito) appare più evidente». (p, 127)
Questa è per me la lezione di Paolo Chiarini: il legame indissolubile, rafforzato da una frequentazione con i testi attenta a scelte e a esclusioni, tra poesia e conoscenza. Non arroccamenti accademici, non adesioni fideistiche, non esibizioni strombazzate di appartenenza alle consuete cerchie di iniziati à la mode, non trucchi elitari, nessun tentativo di precludere ad altri l’accesso a poesia e conoscenza. Non posso fare a meno, allora, di ricordare le parole dello stesso Brecht, in un testo del 1939 (l’anno della stesura di Quanto costa il ferro?), Osservazione dell'arte e arte dell'osservazione: «Ci sono molti artisti (e non dei peggiori) che sono decisi a non fare a nessun costo dell'arte solo per questa piccola cerchia di 'iniziati' e che vogliono creare per tutto il popolo. [...] Democratico è fare della 'piccola cerchia degli intenditori' una grande cerchia di intenditori. Giacché l'arte ha bisogno di conoscenza.»
‘Gallenhumor’ con sapienza svevo-bulgara: Apostoloff di Sibylle Lewitscharoff Nota di lettura di Anna Maria Curci
L’umor biliare, quando trova la sua compagna in una penna tagliente sì, ma dalla precisione impeccabile, ha esiti prodigiosi. Se questa constatazione vale senz’altro per la scrittura di Thomas Bernhard, piacevole sorpresa è ritrovarne tutti gli elementi nella prosa di Sibylle Lewitscharoff, al suo sesto romanzo con Apostoloff. L’elaborata imbragatura dello zaino che l’io narrante porta con sé in questo particolare ‘trasporto’ è sapientemente nascosta: chi legge passa per piani temporali, citazioni scoperte o camuffate, descrizioni ed excursus quanto mai diversi e distanti, senza avere, in alcun momento, l’impressione che il ritmo perda colpi. Ferocia e acutezza guidano la carovana, mentre in auto, in Bulgaria, è il sollecito Rumen, chauffeur con un piede nel mito, a stare al volante. Ecco la sua entrata in scena: «Rumen è il nostro Mercurio, porta le lingue avanti e indietro, viaggia e nel viaggio trova la via, uno di quegli autisti bulgari disperati che non hanno occhi per quello che crepa scivolando via dalla visuale ai lati della strada. Nervosa creatura a noi assegnata...» (p. 8)
Di un ‘trasporto’ speciale si narra, un corteo funebre sui generis, con traversata per mare, l’Adriatico, e viaggio in auto di due sorelle che dalla nativa Svevia seguono nell'odierna Bulgaria – terra paterna - le spoglie del padre, bulgaro emigrato in Germania e suicidatosi molti anni prima. La bizzarra carovana, predisposta fin nei minimi dettagli da Tabakoff, magnate tra i più ricchi della comunità di bulgari emigrati a Stoccarda, conta tredici limousine, accolte, in una parte del viaggio ricostruita in uno dei tanti flashback, nel ventre capace di una nave. Tabakoff si è messo in testa di trasportare le urne con i resti di conterranei che l’hanno preceduto nel viaggio "ultraterreno" (tra questi il padre delle due sorelle) dalla Germania a Sofia, dove ha fatto costruire un monumento funebre imponente e di dubbio gusto.
La teatralità degli effetti, ricercata e raggiunta, è un altro dei tratti che accomuna la scrittura di Lewitscharoff a quella di Bernhard. Lo sguardo della minore delle due sorelle, l’io narrante, dalla sua postazione prediletta dal sedile posteriore dell’automobile, non risparmia e non si risparmia nulla: la desolazione del paesaggio bulgaro contemporaneo, in particolare lungo la costa del Mar Nero (che non è blu, né nero, ma grigio) così come l’inattesa bellezza di Plovdiv, l’antica Filippopoli, la descrizione impietosa di parenti e amici con tanto di disgusto sensoriale accanto alla rara tenerezza ridestata dall’evocazione di un oggetto caro al nonno paterno. Il ricordo si fa resa dei conti: qui la resa dei conti è con il padre, figura più ingombrante perfino di un convitato di pietra.
E l’amore, in tutto questo, che posto occupa? La sua assenza, sembra ritenere l’io narrante, è tutela:
«Nicht die Liebe vermag die Toten in Schach zu halten, denke ich, nur ein gutmütig gepflegter Hass.», nella traduzione di Paola Del Zoppo: «Non è l’amore a tenere sotto scacco i morti, penso, solo un indulgente odio coltivato con cura.» (p. 234)
Sibylle Lewitscharoff, Apostoloff. Traduzione di Paola Del Zoppo. Del Vecchio Editore, 2012
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Sibylle Lewitscharoff è nata a Stoccarda nel 1954 da padre bulgaro e madre tedesca. Ha studiato scienza delle religioni a Berlino, dove vive attualmente; risalgono all’epoca dello studio universitario soggiorni a Buenos Aires e a Parigi. Con il romanzo Pong ha vinto il premio Ingeborg Bachmann nel 1998, per Apostoloff le è stato assegnato nel 2009 il premio della Fiera del Libro di Lipsia. Tra i numerosi premi ricevuti: premio Marie-Luise Kaschnitz, Berliner Literaturpreis, premio Kleist (quest’ultimo nell’anno kleistiano 2011). Nell’anno in corso, 2012, ha ottenuto una borsa di studio per un soggiorno presso l'Accademia di Villa Massimo a Roma nel 2013.
A Fuente Grande te mataron, rojo,
sin juicio, sin ninguna acusación
(a.m.c.)
Hay almas que tienen...
Hay almas que tienen
azules luceros,
mañanas marchitas
entre hojas del tiempo,
y castos rincones
que guardan un viejo
rumor de nostalgias
y sueños.
Otras almas tienen
dolientes espectros
de pasiones. Frutas
con gusanos. Ecos
de una voz quemada
que viene de lejos
como una corriente
de sombra. Recuerdos
vacíos de llanto
y migajas de besos.
Mi alma está madura
hace mucho tiempo,
y se desmorona
turbia de misterio.
Piedras juveniles
roídas de ensueño
caen sobre las aguas
de mis pensamientos.
Cada piedra dice:
"¡Dios está muy lejos!"
Ci sono anime che hanno …
Ci sono anime che hanno
stelle azzurre,
mattini secchi
tra foglie del tempo,
e angoli casti
che conservano un vecchio
rumore di nostalgia
e di sogni.
Altre anime hanno
dolenti spettri
di passioni. Frutta
con vermi. Echi
di una voce bruciata
che viene da lontano
come una corrente
d’ombre. Ricordi
vuoti di pianto
e briciole di baci.
La mia anima è matura
da molto tempo,
e si sgretola
piena di mistero.
Pietre giovanili
rose dal sogno
cadono sull’acqua
dei miei pensieri.
Ogni pietra dice:
“ Dio è molto lontano!”
Nel centenario della nascita di Elsa Morante propongo l'ascolto della Cantata della fiaba estrema, adattamento musicale di Hans Werner Henze della poesia Alibi di Elsa Morante. Alla prima di questa composizione per "soprano, piccolo coro e tredici strumenti", il 26 febbraio 1965 a Zurigo, era presente, oltre a Elsa Morante, Ingeborg Bachmann, legata al musicista e alla scrittrice da rapporti di amicizia. In una lettera del 2 agosto 1968 a Ingeborg Bachmann, Hans Werner Henze scrive: "Sono un violento comunista volgare e, come dice la Morante, un totalitario" (I. Bachmann - H.W. Henze, Briefe einer Freundschaft, Piper, München 2004, 396). Che cosa era successo? Sembra che la lite, di origine politica, fosse sfociata nell'accusa, lanciata pubblicamente da Morante a Henze: "Siete dei totalitari". Henze ricorda così amicizia e lite: «Era il mio punto di riferimento, coi suoi begli occhi miopi che tradivano i sentimenti, musicai una sua poesia d' amore, Alibi, purtroppo litigammo e lei era radicale in questi "divorzi"». Nei Reiselieder mit böhmischen Quinten ("Canti di viaggio con quinte boeme", autobiografia pubblicata nel 1996 a Francoforte sul Meno per i tipi della casa editrice Fischer), Hans Werner Henze così renderà omaggio all'etica del linguaggio di Elsa Morante: «Teneva occupata quella parte della politica, nella quale si tratta di lingua, dell'espressione umana e della sua dignità nel linguaggio, della verità della parola» (p. 246).
Da Alibi di Elsa Morante
Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!
Come a sguardi inconsacrati le ostie sante,
comuni e spglie sono per lui le mille vite.
Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori
e gli si apre la casa dei due misteri:
Il mistero dolorso e il mistero gaudioso.
Io t'amo. Beato l'istante
che mi sono innamorato di te.
Qual è il tuo nome? Simili al firmamento
esso muta con l'ora. Sei tu Giulietta? o sei Teodora?
ti chiami Artù ? o Niso, ti chiami ? Il nome
a te serve solo per giocare, come una bautta.
Vorre chiamarti: fedele, ma non ti somiglia.
La tua grazia tramuta
in un vanto lo scandalo che ti cinge.
Tu sei l'ape e sei la rosa.
Tu sei la sorte che fa i colori alle ali
e i riccioli ai capelli.
La tua riverenza è graziosa come l'arcobaleno.
sono i tuoi giorni un prato lucente
dove t'incontri con un gli angeli fraterni:
Il santo, adulto Chirone,
l'innocente Sileno, e i fanciulli dai piedi di capra,
e le fanciulle-delfino dalle fredde armature.
La sera, ala tua povera cameretta ritorni
e miri il tuo destino tramato di figure,
l'oscuro compagno dormiente
dal corpo tatuato.
Tu eri il paggio favorito alla corte d'Oriente,
tu eri l'astro gemello figlio di Leda,
eri il più bel marinaio sulla nave fenicia,
eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale.
Tu eri l'incarcerato a cui si fan servi gli sbirri.
Eri il compagno prode, la grazia del campo,
su cui piange come una madre
il nemico che gli chiude gli occhi.
Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli
purpurei, sull'alto terrazzo, fra duomi e stendardi.
Eri la prima ballerina del lago dei cigni,
eri Briseide, la schiava dal volto di rose.
Tu eri la santa che cantava nascosta nel coro,
con una dolce voce di contralto.
Eri la principessa cinese dal piede infantile:
il Figlio del Cielo la vide, e s'innamorò.
La bella trama, adorata dal mio cuore,
a te è una gabbia amara.
E in tua salvezza non verrà mai la sposa regina del labirinto.
Per il sapore strano del bene e del male
la tua bocca è troppo scontrosa.
Tu sei la fiaba estrema. O fiore di giacinto
cento corimbi d'unico solitario fiore!
Quando mi sei vicino, non più che un fanciullo m'appari.
Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido
e per dormire un lettuccio ti basta.
Ma quando sei lontano, immane per me diventi.
Il tuo corpo è grande come l'Asia, il tuo respiro
è grande come le maree.
Sperdi i miei neri futili giorni
come l'uragano con la sabbia nera.
Corro gridando i tuoi diversi nomi
lungo il sordo golfo della morte.
Lascia ch'io ti riguardi. La mia stanza percorri
come un galante che passa
in una strage di cuori.
Allo specchio ti miri i lunghi cigli.
Povero come il gatto dei vicoli napoletani,
in eleganza sorpassi duchi e sovrani
risplendi come gemma di miniera
cambi diadema ogni sera
ti vesti d'oro come gli autunni.
Passa la cacciatrice lunare coi suoi bianchi alani...
Dormi.
La notte che all'infanzia ci riporta
e come belva difende i suoi diletti
dalle offese del giorno, distende su noi
la tenda istoriata.
I tuoi colori, o fanciullesco mattino,
tu ripiegasti.
Nella funerea dimora, anche di te mi scordo.
Il tuo cuore che batte è tutto il tempo.
Tu sei la notte nera.
Quarantuno anni fa, il 13 agosto 1971, nasceva a Potenza Francesco Albano, in arte Yzu. Dei suoi primi giorni a Pignola, dove visse fino all’età di 19 anni, posso raccontare, come ho fatto qualche tempo fa, dalla prospettiva di chi allora aveva dieci anni, per frammenti incantati. Oggi desidero far suonare la voce della poesia di Yzu con un itinerario a ritroso, partendo dall’ultima raccolta da lui pubblicata, Canzoni per una stanza abbandonata (Erreciedizioni, Anzi 2011). Come ricorda Antonio Lotierzo in Suonaci una poesia, YZU. Poesia e performance in Francesco Albano (Erreciedizioni, Anzi 2012), Yzu pubblica «la sua opera poetica più matura e più complessa» nel maggio 2011. Scelgo tre poesie dalla silloge, la prima e la settima dalla sezione ex machina , prima delle tre parti, e un lunedì - (in chiaroscuro), ultima delle sette poesie che compongono la terza parte, settimana di passione. Di questa poesia esiste una versione recitata da Vinicio Capossela ed eseguita presso l’Audiorium del Conservatorio di musica “Gesualdo da Venosa” di Potenza il 18 novembre 2011, come testimonia il DVD che accompagna il volume Suonaci una poesia, Yzu. Il mio ringraziamento va alla mamma di Francesco Albano, che mi ha fatto dono dei volumi di poesia di suo figlio, Yzu.
I scrivo per non perdere memoria del brutto.
il lavoro sulla parola -
l’incisione in muri di pietra
di un quadro mobile
che ha vita propria e
un proprio incedere
svilupparsi metamorfosarsi narrare
come registrazione e proiezione -
la vita come un block notes …-
sì, prendo appunti -
fare di ogni miseria ricchezza
cogliere da ogni fiore
la merda che l’ha nutrito
serbare tra le mani
ogni goccia di profumo carpita
all’ignoranza dei corpi che incontro
donare quel po’ di puzza
che mi resta – baciare -
oppure diciamo così,
cerchi di salvare la tua vita
da bacarozzo in un processo
inverso di sublimazione
che passa tra la parola.
(argomento, p, 33)
VII
la mia mano sinistra
mi piace il suo imbarazzo
nell’affrontare un gesto
è impacciata non riesce
dinamica o precisa
ha una naturalezza
improvvisa come di
fotogrammi isolati
vive sorprese estreme
incantati contatti.
amo la sua estraneità.
(la mia mano sinistra, p. 42)
un lunedì - (in chiaroscuro)
fratello buio
mesi vissuti al buio
mesi vissuti senza luce
luce ch'era riuscita
a smuovere un po' la cenere
che asettica copriva
una brace dimenticata.
giorni abbracciato al buio
giorni serrati forte gli occhi
occhi che sanno luce
e fingono di non vedere -
ché tanto bellezza vissuta
non è brace dimenticata.
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