Roma, estate 1983. Un’immagine accompagna i miei itinerari di ricerca per la tesi di laurea nelle biblioteche di accesso pubblico e in quelle nelle quali si entra solo con la malleveria del docente universitario: è il volto di Emanuela Orlandi, che si moltiplica in tremila manifesti attaccati nella notte tra il 29 e 30 giugno dal fratello Pietro, dalle sorelle Natalina, Federica e Maria Cristina, da parenti e amici della ragazza scomparsa il 22 giugno. È un’immagine che si affianca nel mio ricordo a quella di tante - troppe - altre persone al centro di misteri sui quali pende una condanna assurda nel suo ripetersi: l’intrico non si è mai risolto. Prima ancora dell’indignazione (della “giusta collera”, come qualcuno l’ha chiamata) che verrà poi, è l’inquietudine a dominare le mie peregrinazioni per vie della città che vado via via scoprendo, Che cosa starà passando questa ragazza? Per me, poco più ventenne, è ancora fresco il ricordo dei miei quindici anni. Quindici anni, questa è l’età di Emanuela Orlandi il 22 giugno 1983.. E se…? L’identificazione angosciosa si affaccia alla coscienza, ma non trova in me, in quei giorni, una formulazione esplicita.
In Extra omnes. L’infinita scomparsa di Emanuela Orlandi (Zona, 2006) Gaja Cenciarelli, coetanea di Emanuela Orlandi, prende le mosse proprio dal quesito “E se…?”. Non solo lo formula esplicitamente, ma lo articola in più direzioni, senza perdere di vista, mai, nessuna di esse. È utile menzionare due tra le ‘direzioni del pensiero’ alle quali si è accennato, due prospettive che sanno evolversi in piste di ricerca degne di nota.
La prima prospettiva scelta è quella delle coincidenze anagrafiche. Gaja Cenciarelli si chiede: E se fosse capitato a me? Anche io avevo quindici anni all’epoca, anche io frequentavo una scuola cattolica, anche io passavo per quelle strade del centro della città per le quali a Emanuela capitava di passare, magari per recarsi a una lezione alla scuola di musica Tommaso Ludovico da Victoria in Piazza Sant’Apollinare, come le successe per quel pomeriggio del 22 giugno 1983. Il quesito, tuttavia, travalica l’identificazione angosciosa e mette in moto coscienza e ricerca. Coscienza e ricerca, affiancate, fanno sì che questo libro di centocinquanta pagine fitte di dettagli e riflessioni sia in grado da un lato di ricostruire correttamente e coerentemente un contesto storico di riferimento, quello degli anni Ottanta in particolare, dall’altro di riportare all’attenzione e alla memoria di chi legge casi meno noti, come quello di Mirella Gregori, quindicenne anche lei all’epoca della scomparsa, sempre a Roma, sempre nel 1983, ma qualche giorno prima rispetto alla scomparsa di Emanuela Orlandi, il 7 maggio.
L’altra prospettiva parte anch’essa da una ipotesi, da un ‘se’, anzi ‘dal’ se, un se dal quale si sprigiona l’itinerario à rebours : «Partiamo da un se. Alteriamo l’ordine della “fabula”, e peschiamo dall’intreccio di fatti e speculazioni. Se il teschio trovato il 14 maggio 2001 nel confessionale della chiesa di San Gregorio VII a Roma fosse quello di Emanuela Orlandi questo libro non avrebbe motivo di esistere. Il cerchio si chiuderebbe. Perché il se può essere raggelante. Paralizza. È una porta socchiusa dietro cui potrebbe nascondersi di tutto, è il terrore fatto parola. È la somma delle possibilità cui è appesa la nostra vita. Un se. Ma, d’altro canto, se quel teschio non appartenesse a Emanuela Orlandi , i fili di questa vicenda continuerebbero a penzolare, le parole si moltiplicherebbero, la “fabula” sarebbe infinita. E, a sua volta, genererebbe un’ennesima seria di se. E di perché.» (dal Prologo, pag. 5)
Da questa prospettiva si snoda il filo chiaro e documentato che mostra la rete, da più lati ad arte ingarbugliata, di messaggi in codice (di ‘Pierluigi’, ‘Mario’ dell’Amerikano), di colpi di scena, di piste di indagini (Vaticano, Turkesh, Lupi Grigi, Banda della Magliana, solo per menzionarne alcune) e depistaggi, di reticenze ostinate e continue sottrazioni alla verità, di proclami e ritrattazioni (spiccano, per quantità e insistenza, quelli di Alì Agca) di tanto coraggiosi quanto inascoltati appelli all’attenzione. Anche dal voler dare voce a coloro per i quali, nel giorno della scomparsa della figlia, «tutto finì. La vita si fermò. E cominciarono le parole» (p. 38) questo libro trae la sua robusta ragion d’essere.
Anna Maria Curci, 27 febbraio 2012