Perché nulla è il bello, se non il principio del tremendo
Il 21 gennaio 1912, esattamente cento anni fa, Rainer Maria Rilke invia a Marie von Thurn und Taxis-Hohenlohe la prima delle Duineser Elegien. Eccola, nella traduzione di Franco Rella e nell’originale:
PRIMA ELEGIA
Se pur gridassi, chi mi udrebbe dalle gerarchie
degli angeli? E se uno mi stringesse d’improvviso
al cuore, soccomberei per la sua troppo forte presenza.
Perché nulla è il bello, se non l’emergenza
del tremendo: forse possiamo reggerlo ancora,
ed ammirarlo anche, perché indifferente
non degna distruggerci. Ognuno degli angeli è tremendo.
E mi trattengo così, e inghiotto l’appello d’oscuri
singulti. Ah! Chi possiamo allora chiamare in aiuto?
Gli angeli no, gli uomini no, e i sagaci
animali lo notano già quanto noi inadeguati
siamo qui di casa nel mondo già interpretato.
Ci resta forse un albero là sul pendio, che ogni giorno
possiamo rivedere; ci resta la strada di ieri e anche
l’adusata fedeltà ad una abitudine, che in noi
si è rintanata, è rimasta, e non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte, quando il vento colmo
di cosmici spazi ci corrode il volto – a chi mai
potrebbe mancare l’agognata , che sì dolcemente disillude,
essa, che di fronte al cuore solitario penosamente
si leva ? È forse più lieve agli amanti?
Il destino lo nascondono soltanto l’un l’altro.
Non lo sai ancora ? Getta dalle tue braccia il vuoto
fin dentro gli spazi che respiriamo; forse gli uccelli
con volo più intimo sentono l’aria così dilatata.
Sì, le primavere ebbero bisogno di te. Di te cercava
qualche stella, ché tu ti mettessi sulle tue tracce.
Saliva attraverso il passato un’onda, o forse là dove
passasti, da una finestra spalancata, ti si offriva
un violino. Tutto questo era un compito. Ma tu, tu
lo potresti reggere ? Non eri forse, ancora una volta,
sempre disperso nell’attesa, come se tutto annunciasse
un’amata? (Dove vorresti custodirla, che i grandi
pensieri stranieri in te vengono, vanno, e indugiano
spesso di notte). Se lo vuoi, canta allora le amanti;
non è ancora immortale il loro sentimento famoso.
Quelle che tu quasi invidi, le abbandonate, a te
più care delle appagate. Ricomincia sempre
di nuovo l’inattingibile celebrazione; pensa:
l’eroe rimane; anche il trapassare fu per lui
solo un pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma le amanti l’esausta natura in sé le riprende
di nuovo, come non ci fosse più altra forza per
questo compito. Hai parlato abbastanza di
Gaspara Stampa, così che una qualche fanciulla,
cui sfugga l’amato, ne senta dentro di sé
entusiasmante l’esempio: e se come lei fossi io ?
Non devono forse alla fine questi così antichi dolori
diventare fecondi per noi? Non è tempo che amando
ci liberiamo noi dell’amato restando frementi:
come la freccia, che è tesa alla corda, raccolta
nello scatto per essere oltre e più di se stessa.
Perché non c’è più luogo alcuno per stare.
Voci, voci. Ascolta mio cuore, come solo
i santi seppero udire: loro che l’immane richiamo
solleva dal suolo; e loro in ginocchio,
oltre il possibile, e ancora, e senza badarci:
così essi stavano in ascolto. Non che tu possa
comunque reggere la voce di Dio. Ma ascolta come spira
l’ininterrotto messaggio che dal silenzio si forma.
Sussurra ora a te di quei giovani morti.
E sempre, quando entrasti nelle chiese di Roma
o di Napoli, non ti parlava pacato del loro destino?
O sublime ti si presentò una scritta, come la lapide,
l’altro giorno, a Santa Maria Formosa.
Che vogliono da me? Devo rimuovere lievemente
l’apparenza stessa dell’ingiustizia che talvolta
un poco raffrena il movimento puro del loro spirito.
Certo, è strano non abitare più la terra,
non agire più gli usi da così poco appresi,
e alle rose, e alle altre cose piene di promesse
non dare più senso di un umano futuro;
ciò che eravamo in mani illimitatamente ansiose
non essere più, e anche il proprio nome
abbandonare come un giocattolo infranto.
Strano non desiderare più i desideri. Strano
quel che stretto si teneva vederlo dissolto
fluttuare nello spazio. E penoso essere morti:
un continuo ricercare, faticosamente in traccia
di un poco d’eternità. – Ma i viventi compiono
tutti l’errore di tracciare troppo confini netti.
Gli angeli (dicono) spesso non sanno se vanno
tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
trascina attraverso entrambi i regni ogni età,
sempre con sé, ed entrambi sovrasta con il suo suono.
Non han più bisogno di noi i giovani morti, da ciò che è terreno
ci si disavvezza lievemente, come dolcemente si cresce oltre
il seno materno. Ma noi, che di così grandi segreti
abbiamo bisogno, noi a cui sovente un beato progresso
si sprigiona dal lutto -: possiamo essere senza di loro?
Vano è forse il racconto, che un tempo nel compianto di Lino
la prima musica audace pervadesse l’impietrito rigore;
che allora nello spazio sgomento, da cui sfuggì quasi divino
un fanciullo, d’improvviso e per sempre, il vuoto entrasse in
quella vibrazione, che ora trascina, consola, e ci aiuta.
Die erste Elegie
Wer, wenn ich schriee, hörte mich denn aus der Engel
Ordnungen? und gesetzt selbst, es nähme
einer mich plötzlich ans Herz: ich verginge von seinem
stärkeren Dasein. Denn das Schöne ist nichts
als des Schrecklichen Anfang, den wir noch grade ertragen,
und wir bewundern es so, weil es gelassen verschmäht,
uns zu zerstören. Ein jeder Engel ist schrecklich.
Und so verhalt ich mich denn und verschlucke den Lockruf
dunkelen Schluchzens. Ach, wen vermögen
wir denn zu brauchen? Engel nicht, Menschen nicht,
und die findigen Tiere merken es schon,
dass wir nicht sehr verlässlich zu Haus sind
in der gedeuteten Welt. Es bleibt uns vielleicht
irgend ein Baum an dem Abhang, dass wir ihn täglich
wiedersähen; es bleibt uns die Straße von gestern
und das verzogene Treusein einer Gewohnheit,
der es bei uns gefiel, und so blieb sie und ging nicht.
O und die Nacht, die Nacht, wenn der Wind voller Weltraum
uns am Angesicht zehrt -, wem bliebe sie nicht, die ersehnte,
sanft enttäuschende, welche dem einzelnen Herzen
mühsam bevorsteht. Ist sie den Liebenden leichter?
Ach, sie verdecken sich nur mit einander ihr Los.
Weißt du's noch nicht? Wirf aus den Armen die Leere
zu den Räumen hinzu, die wir atmen; vielleicht da die Vögel
die erweiterte Luft fühlen mit innigerm Flug.
Ja, die Frühlinge brauchten dich wohl. Es muteten manche
Sterne dir zu, dass du sie spürtest. Es hob
sich eine Woge heran im Vergangenen, oder
da du vorüberkamst am geöffneten Fenster,
gab eine Geige sich hin. Das alles war Auftrag.
Aber bewältigtest du's? Warst du nicht immer
noch von Erwartung zerstreut, als kündigte alles
eine Geliebte dir an? (Wo willst du sie bergen,
da doch die großen fremden Gedanken bei dir
aus und ein gehn und öfters bleiben bei Nacht.)
Sehnt es dich aber, so singe die Liebenden; lange
noch nicht unsterblich genug ist ihr berühmtes Gefühl.
Jene, du neidest sie fast, Verlassenen, die du
so viel liebender fandst als die Gestillten. Beginn
immer von neuem die nie zu erreichende Preisung;
denk: es erhält sich der Held, selbst der Untergang war ihm
nur ein Vorwand, zu sein: seine letzte Geburt.
Aber die Liebenden nimmt die erschöpfte Natur
in sich zurück, als wären nicht zweimal die Kräfte,
dieses zu leisten. Hast du der Gaspara Stampa
denn genügend gedacht, dass irgend ein Mädchen,
dem der Geliebte entging, am gesteigerten Beispiel
dieser Liebenden fühlt: dass ich würde wie sie?
Sollen nicht endlich uns diese ältesten Schmerzen
fruchtbarer werden? Ist es nicht Zeit, dass wir liebend
uns vom Geliebten befrein und es bebend bestehn:
wie der Pfeil die Sehne besteht, um gesammelt im Absprung
mehr zu sein als er selbst. Denn Bleiben ist nirgends.
Stimmen, Stimmen. Höre, mein Herz, wie sonst nur
Heilige hörten: dass die der riesige Ruf
aufhob vom Boden; sie aber knieten,
Unmögliche, weiter und achtetens nicht:
So waren sie hörend. Nicht, dass du Gottes ertrügest
die Stimme, bei weitem. Aber das Wehende höre,
die ununterbrochene Nachricht, die aus Stille sich bildet.
Es rauscht jetzt von jenen jungen Toten zu dir.
Wo immer du eintratest, redete nicht in Kirchen
zu Rom und Neapel ruhig ihr Schicksal dich an?
Oder es trug eine Inschrift sich erhaben dir auf,
wie neulich die Tafel in Santa Maria Formosa.
Was sie mir wollen? leise soll ich des Unrechts
Anschein abtun, der ihrer Geister
reine Bewegung manchmal ein wenig behindert.
Freilich ist es seltsam, die Erde nicht mehr zu bewohnen,
kaum erlernte Gebräuche nicht mehr zu üben,
Rosen, und andern eigens versprechenden Dingen
nicht die Bedeutung menschlicher Zukunft zu geben;
das, was man war in unendlich ängstlichen Händen,
nicht mehr zu sein, und selbst den eigenen Namen
wegzulassen wie ein zerbrochenes Spielzeug.
Seltsam, die Wünsche nicht weiterzuwünschen. Seltsam,
alles, was sich bezog, so lose im Raume
flattern zu sehen. Und das Totsein ist mühsam
und voller Nachholn, dass man allmählich ein wenig
Ewigkeit spürt. - Aber Lebendige machen
alle den Fehler, dass sie zu stark unterscheiden.
Engel (sagt man) wüssten oft nicht, ob sie unter
Lebenden gehn oder Toten. Die ewige Strömung
reißt durch beide Bereiche alle Alter
immer mit sich und übertönt sie in beiden.
Schließlich brauchen sie uns nicht mehr, die Früheentrückten,
man entwöhnt sich des Irdischen sanft, wie man den Brüsten
milde der Mutter entwächst. Aber wir, die so große
Geheimnisse brauchen, denen aus Trauer so oft
seliger Fortschritt entspringt -: könnten wir sein ohne sie?
Ist die Sage umsonst, da einst in der Klage um Linos
wagende erste Musik dürre Erstarrung durchdrang;
dass erst im erschrockenen Raum, dem ein beinah göttlicher Jüngling
plötzlich für immer enttrat, die Leere in jene
Schwingung geriet, die uns jetzt hinreißt und tröstet und hilft.
(da: Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi. Introduzione, traduzione e commento di Franco Rella, BUR, Milano 1994, 42-47)