Ogni anno scelgo un libro per accompagnare il consueto passaggio del testimone. Quest’anno la scelta è caduta su Der Freund und der Fremde, romanzo che Uwe Timm (autore del quale questo blog ha già scritto) ha pubblicato nel 2005 e che nel 2007 è stato pubblicato in Italia, nella traduzione di Margherita Carbonaro, con il titolo L’amico e lo straniero. Il termine tedesco “der Fremde” racchiude tuttavia due aggettivi sostantivati: “lo straniero”, appunto, e “l’ estraneo”. La molla della memoria nel romanzo, scritto quasi quaranta anni dopo quella tragica giornata del 2 giugno 1967 a Berlino, che vide la morte di Benno Ohnesorg per mano dell’investigatore della polizia in borghese Kurras in un cortile a Berlino, nel corso della manifestazione contro la visita dello scià di Persia in Germania, è l’immagine dell’acqua, nel fiume “che scorre verde e quieto” sotto lo sguardo di Benno, amico straniero/estraneo di Uwe Timm.
Acquista così un significato potente l’esergo, la citazione dalla seconda parte di The Dry Salvages, il terzo dei Quattro Quartetti che Thomas Stearns Eliot pubblicò sessanta anni fa, nel 1941. (a.m.c.)
Di seguito chi vuole può leggere l’incipit del romanzo, nella traduzione italiana e, di seguito, nella versione originale.
Consequence of further days and hours,
While emotion takes to itself the emotionless
Years of living among the breakage
Of what was believed in as the most reliable—
And therefore the fittest for renunciation
(T.S. Eliot, Four Quartets)
Quel primo sguardo. Al di sotto il fiume che scorre verde e quieto, il ponte di pietra e lui seduto sul parapetto, le gambe accavallate, così guarda verso la riva opposta, punteggiata da qualche salice e cespuglio, mentre al di là si stendono i prati e i campi. Una mattina di giugno, molto presto, nell’aria ancora la frescura della notte, il cielo è limpido e riporterà il caldo secco del giorno precedente.
Così, raccolto in se stesso, lo vidi mentre seguivo il sentiero che dal parco del collegio lo portava al fiume Oker ed esitai un istante chiedendomi se non dovessi tornare sui miei passi, ma poi pensai che forse mi aveva già visto e poteva immaginare che volessi evitarlo. La sera prima avevo cercato di convincerlo a venire con noi a Hannover. Si diceva che al sabato ci fossero feste nelle ville, cose folli e sfrenate, ed era stata pronunciata addirittura la parola orgia. Nonostante i racconti fantastici, e benché andasse spesso a Hannover, lui non era venuto.
Un po’ sorpreso e addirittura spaurito alzò lo sguardo quando mi avvicinai a lui. Gli raccontai di quella notte e dei bagordi durati fino al mattino e del viaggio in macchina, io ero appena tornato. Gli dissi che si era perso qualcosa, pensavo dovesse provare anche lui la mia stessa fame di esperienza. Avremmo vissuto e studiato insieme poche settimane ancora.
L’avevo notato la prima volta che ci eravamo ritrovati in classe, mentre cercavamo i nostri posti ai banchi. Adulti chiassosi che dopo anni erano diventati studenti. Sedici ragazzi e due ragazze. Credo fosse il più giovane, aveva vent’anni ma ne dimostrava ancora meno. Durante i primi giorni rimase un po’ in disparte dai gruppi che si andavano formando, ma senza ostentare nulla. Nella sua introversione non si leggeva alcun disagio o timidezza, piuttosto una naturale indipendenza. Questo suscitò la mia curiosità e cercai di avvicinarmi a lui. Nelle settimane successive parlammo qualche volta delle nostre rispettive città, Hannover e Amburgo, di Braunschweig dove vivevamo in quel momento e dei nostri rispettivi mestieri. Lui era stato apprendista decoratore, io invece pellicciaio, ma ben presto ci mettemmo a discutere soprattutto dei libri che stavamo leggendo, lui mi aveva parlato di Molloy di Beckett e me ne aveva letto alcuni brani di cui apprezzava molto i giochi di parole.
La nostra amicizia cominciò conversando di letteratura. Ma fino a quel mattino di giugno non avevamo parlato ancora dei nostri dei nostri desideri e progetti. Ed è un ricordo molto nitido: io in piedi accanto a lui, lo sguardo fisso sull’Oker, il silenzio che si dilatava lasciando sempre più spazio alla sensazione di averlo disturbato, e allora gli chiesi, tanto per parlare, che cosa stesse facendo.
Dopo aver esistato un solo istante, lui mi mostrò un piccolo taccuino, Scrivo.
E cosa?
Per me.
Anch’io scrivevo per me,
Così iniziammo a mostrarci quello che scrivevamo e lui divenne il mio primo lettore.
(da: Uwe Timm, L’amico e lo straniero. Traduzione di Margherita Carbonaro. Mondadori, Milano 2007, 9-11)
Dieser erste Blick. Unten der Fluß, der ruhig und grün dahinfließt, die Steinbrücke, auf deren Mauer er sitzt, ein Bein über das andere geschlagen, so schaut er zum anderen Ufer, ein paar Büsche und Weiden stehen dort, dahinter öffnen sich die Wiesen und Felder. Ein Tag im Juni, frühmorgens, noch mit der Frische der Nacht, der Himmel ist wolkenlos und wird wieder die trockene Hitze des gestrigen Tages bringen.
So, versunken in sich, sah ich ihn sitzen, als ich den Weg durch den Park des Kollegs hinunter zur Oker ging und zögerte, ob ich nicht umkehren sollte, dachte dann aber, er könnte mich schon bemerkt haben und vermuten, ich wolle ihm aus dem Weg gehen. Am Abend zuvor hatte ich auf ihn eingeredet, mit uns nach Hannover zu fahren. Dort, so hieß es, gebe es samstags Partys, in Villen, exzessiv werde da gefeiert, sogar das Wort Orgie war gefallen. Er war, trotz der phantastischen Erzählungen und obwohl er sonst oft nach Hannover fuhr, nicht mitgekommen.
Ein wenig überrascht, ja erschrocken blickte er hoch, als ich zu ihm trat. Ich erzählte ihm von dieser Nacht und dem Gelage bis in den Morgen und der Fahrt im Auto, das mich eben zurückgebracht hatte. Ich sagte ihm, er habe etwas versäumt, denn ich glaubte, mein Erlebnishunger müsse auch der seine sein. Noch lebten und lernten wir erst wenige Wochen zusammen in dem Kolleg.
Aufgefallen war er mir, als wir zum ersten Mal im Klassenraum zusammenkamen und unsere Plätze an den Tischen suchten. Lärmende Erwachsene, die nach Jahren der Berufstätigkeit wieder Schüler geworden waren. Sechzehn junge Männer und zwei Frauen. Er war, glaube ich, der Jüngste, zwanzig Jahre alt, sah aber noch jünger aus. Er hielt sich in den ersten Tagen ein wenig, doch jeden demonstrativen Gestus vermeidend, von den sich bildenden Gruppen fern. Aus diesem Insichgekehrten sprach nichts Verdrucktes, Zaghaftes, sondern etwas selbstverständlich Unabhängiges. Das weckte meine Neugier, und so suchte ich seine Nähe. In den folgenden Wochen hatten wir ein paarmal miteinander geredet, über die Städte, aus denen wir kamen, Hannover und Hamburg, über die Stadt Braunschweig, in der wir jetzt lebten, über unsere früheren Berufe, er hatte Dekorateur gelernt und ich Kürschner, vor allem aber hatten wir sehr bald über Bücher, die wir gerade lasen, gesprochen, er über den Molloy von Beckett, und er hatte mir einige Stellen vorgelesen, deren Wortwitz ihm besonders gefiel.
Unsere Freundschaft begann als Gespräch über Literatur. Aber bis zu diesem Morgen im Juni hatten wir noch nicht über unsere Wünsche, über unsere Pläne gesprochen. Und das ist eine der bildgenauen Erinnerungen: Neben ihm stehend und über die Oker blickend, dehnte sich das Schweigen und gab dem Gefühl, ihn gestört zu haben, immer mehr Raum, und so fragte ich ihn, um überhaupt etwas zu sagen, was er denn da mache.
Nach einem kurzen Zögern zeigte er mir das kleine Notizbuch. Ich schreibe.
Und was?
Für mich.
Auch ich schrieb für mich.
So begann es, daß wir einander unser Geschriebenes zeigten und er mein erster Leser wurde.
(aus: Uwe Timm, Der Freund und der Fremde, Kiepenheueer & Witsch, Köln 2005