In attesa di consultare l'edizione completa delle opere di Kleist, curata da Anna Maria Carpi, riprendo la lettura di Der Findling, Il trovatello, "la" novella per eccellenza, scritta da Heinrich von Kleist nel 1811, duecento anni fa. Se si pensa alla prosa di Kleist, l'associazione immediata è alle opere più note: Michael Kohlhaas, La Marchesa di O.., Il terremoto in Cile, Fidanzamento a Santo Domingo.
La novella Der Findling, Il trovatello, è meno nota e molto più breve rispetto ai quattro racconti menzionati, che aprono l'edizione italiana dei Racconti di Kleist (Introduzione di Giuliano Baioni, traduzione di Andrea Casalegno, Garzanti, Milano 1977). Solo per sedici pagine si estende il racconto delle vicende del commerciante romano Antonio Piachi, che, in un viaggio d'affari con il figlio Paolo, fuori Ragusa, città nella quale infuria la peste, si imbatte in Nicolò, bambino che "candidamente" gli dice di essere infetto e ciononostante gli bacia la mano. Da quell'incontro si dipanerà una serie di eventi drammatici. Le sedici pagine della novella sono tuttavia così dense, che riassumerle brevemente escluderebbe dettagli rilevanti.
Nell'introduzione all'edizione dei Racconti del 1977, Giuliano Baioni mette al centro di questa novella la vendetta come principio metafisico e vede nell'epidemia la metafora del disordine rivoluzionario.
In Un inquieto batter d'ali. Vita di Heinrich von Kleist, Anna Maria Carpi afferma:
"Il Trovatello, questa storia d'ipocrisia e di adulterio inconscio con un defunto che si svolge nella Roma dei papi, gliel'avevano ispirato il Tartufo di Molière e il Monaco di Lewis" (p. 286).
Vendetta e inaudita ignominia, ipocrisia e adulterio, scontro tra generazioni come collisione epocale, tema del doppio, malvagità e solitudine: di questi e di altri temi si nutre Il trovatello, che invito a leggere integralmente, proseguendo l’itinerario che inizia qui con le prime pagine:
“Antonio Piachi, facoltoso mediatore romano di terreni, era costretto di tanto in tanto dai suoi commerci a intraprendere lunghi viaggi, durante i quali lasciava di solito a casa Elvira, la giovane moglie, sotto la protezione dei parenti di lei. Uno di questi viaggi lo condusse, con il figlio Paolo, un ragazzo di undici anni, nato dalla sua prima moglie, a Ragusa. Ora, avvenne che laggiù fosse appena scoppiata un’epidemia, che spargeva gran terrore in città e nei dintorni. Piachi, che ne aveva avuto notizia solo durante il viaggio, si fermò nei sobborghi, per informarsi sulla sua natura. Ma, quando udì che il morbo si faceva di giorno in giorno più pericoloso, e si pensava di chiudere le porte della città, l’angoscia per il figlio prevalse su ogni interesse commerciale: si procurò dei cavalli e ripartì.
Giunto in aperta campagna, notò accanto alla carrozza un fanciullo che tendeva le mani verso di lui, come se implorasse, e sembrava in preda a una forte agitazione. Piachi ordinò di fermare. Quando gli fu chiesto che cosa volesse, il fanciullo rispose candidamente che aveva la peste e che i birri lo inseguivano, per portarlo all’ospedale, dove erano già morti suo padre e sua madre; pregò per tutti i santi che lo prendesse con sé e non lo lasciasse morire in città, e con queste parole afferrò la mano del vecchio, la strinse, la baciò e la coperse di lacrime. Piachi, nel primo impulso del terrore, fece per spingere lontano da sé il ragazzo; ma poiché egli, proprio in quel momento, cambiò colore e cadde al suolo svenuto, il buon vecchio si mosse a compassione: smontò, con il figlio, adagiò il ragazzo nella carrozza e proseguì con lui, anche se non aveva la più pallida idea di che cosa dovesse farne.
Stava ancora discutendo con i locandieri, alla prima tappa, sul modo per liberarsene, quando, per ordine della polizia, che aveva ricevuto una soffiata, venne arrestato e ricondotto sotto scorta a Ragusa, insieme a suo figlio e a Nicolò, come si chiamava il fanciullo malato. Tutte le rimostranze di Piachi contro la crudele di quel procedimento furono inutili; arrivati a Ragusa, essi furono consegnati a un poliziotto e portati tutti e tre all’ospedale, dove Piachi, bensì, restò sano, e Nicolò, il fanciullo, si ristabilì, ma Paolo, il suo figliolo di undici anni, contagiato da lui, in tre giorni morì.
Quando le porte vennero riaperte Piachi, seppellito il figliolo, ottenne dalla polizia il permesso di partire. Era appena salito in carrozza, prostrato dal dolore, e, scorgendo accanto a sé il posto vuoto, aveva tirato fuori il fazzoletto per dare sfogo alle lacrime, quando Nicolò, con il berretto in mano, si avvicinò alla carrozza e gli augurò buon viaggio. Piachi si sporse dal finestrino e gli domandò, con la voce rotta da violenti singhiozzi, se voleva fare il viaggio con lui.
«Oh sì, molto volentieri!», disse il ragazzo annuendo, non appena ebbe compreso le parole del vecchio. E poiché i responsabili dell’ospedale, quando il commerciante chiese se al ragazzo era permesso partire con lui, l’assicurarono, sorridendo, che era un figlio di Dio, e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza, Piachi lo fece salire, con grande commozione, nella carrozza e lo portò con sé a Roma, al posto di suo figlio.
Per via, davanti alle porte della città, il commerciante guardò per la prima volta con attenzione il ragazzo. Era di una bellezza strana, un po’ fissa; i capelli neri gli ricadevano sulla fronte in ciocche lisce, ombreggiando un volto serio e intelligente, che non mutava mai espressione. Il vecchio gli rivolse parecchie domande, alle quali egli diede solo brevi risposte; taciturno e raccolto in se stesso, se ne stava seduto nell’angolo, con le mani in tasca, contemplando, con occhi timidi e pensierosi, le cose che correvano via a lato della carrozza. Di tanto in tanto, con gesti lenti e silenziosi, prendeva una manciata di noci da una borsa che aveva con sé e, mentre Piachi si asciugava le lacrime, le metteva fra i denti e le spezzava.”
(Heinrich von Kleist, Racconti, introduzione di Giuliano Baioni, traduzione di Andrea Casalegno, Garzanti, Milano 1977, 190-191)