Cantare confine: Il peso di pianura di Nadia Agustoni
di Anna Maria Curci
Percorrere i versi della raccolta Il peso di pianura di Nadia Agustoni (Collana Aretusa, LietoColle 2011) è addentrarsi su strade che non hanno corsie preferenziali, né punti di ristoro atti a nutrire l’oblio. L’io lirico, guida e passatore, mette a tacere illusioni e false promesse sin dalla prima poesia, che dà il titolo alla prima parte: “Cosa vuoi che dica la polvere”.
La guida esperta sa che “cantare confine”, come recita il titolo della seconda poesia della seconda parte (Il peso di pianura), è scelta e vincolo allo stesso tempo:
cantare confine
nel “come” carbone della memoria
del nostro bene un’eco si stacca
“t’inchiodano spine
ma hai dote di vento…”
la lingua dei morti
prevede l’offerta
e t’impiglia il cuore
rete d’uccelli
“dovrai cantare confine”
(p. 40)
Il passatore non copre di mistero il luogo della sua dimora, ne fa anzi uno scenario rivelatore di una condizione:
io abito in una via di prati
l’azzurro slega bufera
e più forte di verità e passato
è pietra che libera la pietra:
io abito in una via di prati
col sole i muri e rifiuti di fabbriche
ed è giusto e ingiusto oscuro e chiaro
essere superflui negli occhi dell’altro,
nel suo canto-lavoro di pianura
che ci dà imprevista misura di terra
quel sopravvivere ancora assediati.
(p. 17)
Non è compiacente, il paesaggio, ma schiude vie a chi accetta “il vicino dire dello sguardo/e l’arsura quando per basse maree/un male puro ti corica e vedi/l’esilio ai tuoi portoni.” (da altro nord, p. 19). Può succedere allora che la diga si faccia grembo e che la pianta, con rami e spiragli, non risani, ma co-incida il dolore:
dove la diga
nel mese dove diga è grembo
e acque salgono i bacini
e su barche smisurata mitezza
facciamo al cielo
ho pensato
che sempre la pianta
è rami e spiragli
e mai risana il proprio dolore
ma coincide.
(p. 18)
Il dolore si rapprende austero in vegetali ricordi (p. 63), oppure si manifesta, “con cranio aperto”, come casa di boschi (p. 62). Talvolta, tuttavia, il sentiero conduce
in terra propizia
Le parole del bene
grandissima colpa
sbordano volti e muschio:
in terra propizia
ciliegio t’entra nel petto
fiorisce casa.
(p. 48)
È “di vedetta”, l’io lirico, nella poesia ai remi (p. 52) e nella “semicampagna”, in cima ai rovi (p. 33) percepisce “l’odore dei muri vecchi ammuffiti”.
La sapienza raccolta lungo il cammino non dà tuttavia lasciapassare di alcun tipo, né elitari, né permanenti; rende, al contrario, ancora più acuta l’attenzione al
varco
mai entrare al varco dove altri non entrano
sapere senza domande che si è soglia
e domanda porre per ultima cosa di giustizia,
ma non sulla morte, sulla polvere che resta
e chiede ai vivi risposta.
(p. 55)