Io lo chiamo cuore. Da Prêt(re) à porter di Fabrizio Centofanti
Ci sono mattinate che fanno riscoprire la bellezza del silenzio e della meditazione, non già per cedere all’impulso – tanto “umano, troppo umano” quanto perfettamente comprensibile di questi tempi – di sfuggire alla storia, di rifugiarsi in un mondo nel quale la sospensione dell’impegno possa lenire le ferite del viver quotidiano, bensì per ripartire con maggiore consapevolezza, sia dei propri limiti, sia della scelta di muoversi - e testimoniare - in una dimensione temporale. Oggi è stata una di quelle mattine ed è iniziata nel segno della parola meditata. Mi rendo conto di usare un termine fuori moda, ma corro volentieri questo rischio. Troppe volte, mi è stato ricordato poi nel corso della mattinata, si ripete l’inganno degli alibi alla moda. E allora: stamattina, all’alba, sono andata a colpo sicuro verso un determinato scaffale della libreria dell’ingresso e ho scelto di riprendere in mano le Righe (Righe dell’alterità, Righe della continuità, Righe della mondanità, Righe della novità, Righe della precarietà) di Prêt(re) à porter di Fabrizio Centofanti. Sapevo che avrei trovato un viatico sicuro ma non scontato, non solo per la giornata di oggi. Così è stato. Nello scorrere le Righe, mi sono imbattuta in una pagina che, per l’intreccio singolare eppur familiare di biografie e luoghi, mi è giunta come un dono speciale. È questa:
Io lo chiamo cuore
Era un fazzoletto d’erba all’EUR, che chiamavamo triangolo. Due palme formavano una porta naturale, per l’altra si potevano piazzare due maglioni o i pantaloni della tuta. Sullo sfondo il laghetto artificiale, dove sfilavano canoe da corsa, che poi si riunivano nella Piscina delle Rose. L’infanzia è un mondo che non ha niente a che vedere con il mondo: conta solo la tua anima innocente, che scorrazza nel triangolo dell’EUR e tenta di mettere il pallone tra le palme. Un’oscura profezia di desideri sconosciuti? I carabinieri provavano a sfrattarci, ma noi ritornavamo, come bambini terribili dell’Intifada. Avevo doti innate da centrocampista, e mentre sfioravo il pallone con delicatezza, in una sorta di danza leggera, mi accorgevo di inseguire altro. I carabinieri mi ricordavano che avrei dovuto lottare palmo a palmo per realizzare i miei obiettivi, che sempre si sarebbe presentata un’autorità ostile al tiro decisivo, come se la vita non avesse requie, e il laghetto artificiale fosse un oceano pronto a sollevarsi in onde smisurate. Crescendo, continuai a giocare, le partite si fecero più dure, lo sguardo più cattivo nei contrasti, e l’altro non era più il compagno di danze e di tocchi delicati, ma il coriaceo antagonista che avrebbe potuto rompermi una gamba. Eppure, in me, hanno vinto le palme, i maglioni da battaglia, i pantaloni della tuta al posto della porta, le fughe innocenti dai carabinieri rassegnati, l’oscura profezia di un desiderio che ancora mi attraversa in queste notti insonni da sognatore recidivo, scorrazzante come allora nel fazzoletto d’erba all’EUR, che chiamano triangolo. Io lo chiamo cuore.
(da: Fabrizio Centofanti, Prêt(re) à porter. La vita in cinque righe. Prefazione di Tiziano Scarpa. Postfazione di Riccardo Ferrazzi, Effatà Editrice, Cantalupa 2010, p. 42)
“Eppure”, anche “ in me, hanno vinto le palme, i maglioni da battaglia, i pantaloni della tuta al posto della porta, le fughe innocenti” dal portiere del complesso nel quale abitavamo da bambini che voleva far fuori tutti i palloni squarciandoli rumorosamente, le gambe di un tavolo rotto per imitare le partite di baseball, gli stracci colorati per giocare a principesse, le corse a casa con la lingua di fuori mentre mia madre ricordava imperiosa l’ora tarda e inadeguata ai giochi.
Nella parola “Eppure” vedo insieme il senso dell’impegno quotidiano e Le chiavi del regno (che è anche il titolo dato ad alcune delle Righe della raccolta).
Anna Maria Curci
16 aprile 2011