Il mio primo incontro con la scrittura di Marica Bodrožić è avvenuto leggendo la sua introduzione all’edizione italiana del volume di racconti Nell di Christine Lavant. „Ho bisogno di un essere umano, finché non avrò Dio.“ Il linguaggio salvifico di Christine Lavant: questo è il titolo del breve e sostanzioso saggio di Marica Bodrožić pubblicato come introduzione ai racconti di Lavant (in: Christine Lavant, Nell, Zandonai, Rovereto 2009, IX-XVII). A testimonianza della traccia profonda lasciata già da questo primo incontro riporto le parole che concludono il saggio: “Anche il più alto grido è, nella scrittura, circondato di silenzio. Il lettore si addentra in questo silenzio ed è, nella catena di coloro che tacciono, l’ultimo anello: è fin dall’inizio il beneficiario predestinato della grazia.”
Il secondo incontro è stato voluto, non più un imbattersi casuale, dunque, ma il frutto di una ricerca, un viaggio nella poesia di Marica Bodrožić attraverso la traduzione dei versi che danno il titolo alla raccolta Ein Kolibri kam unverwandelt (Otto Müller Verlag, Salzburg/Wien 2007). Ho pubblicato la mia traduzione e l’originale in tedesco su “Cronache di Mutter Courage” l’8 marzo 2010. Ecco i due testi:
Un colibrì giunse immutato
nel genere dei sogni,
si guardò intorno, guardò le persone lì
presenti, si dipinse le ali d’azzurro e disse
ai bipedi: io sono il cielo.
Il colore lo testimoniava.
Ma la gente non aveva prove.
Perciò taceva vile intorno alla bellezza
e dava a intendere di far diplomazia.
Si misero a far di conto, fecero calcoli e
alla fine comunicarono al colibrì
che s’era deciso che il colore,
in fondo, altro non era che illusione. L’uccello si stupì,
imparò immediatamente lo stupore
dagli umani, volò dai fiori color lillà,
si sedette e tirò fuori il libro delle magie.
Lo sfogliò per un po’ di volte avanti e indietro,
si tramutò in una farfalla,
si dipinse le ali d’azzurro e disse
agli umani: io sono il cielo.
Il colore lo testimoniava.
Ma i bambini nuovi non avevano più sogni.
Presero il miracolo parlante
tra le dita. Solo la polvere
li fece gridare di stupore. La farfalla,
nel frattempo, diventò gialla, volò nella terra primigenia
delle immagini, si riposò sui limoni che maturavano,
divenne un colibrì, giunse immutato
nel genere dei sogni,
si guardò intorno, guardò le persone lì
presenti, ed ebbe pazienza.
Ein Kolibri kam unverwandelt
in die Gattung der Träume hinein,
sah sich um, sah die dort vorhandenen
Menschen, malte seine Flügel blau und sagte
zu den Zweibeinigen: ich bin der Himmel.
Die Farbe sprach dafür.
Aber die Leute hatten keine Beweise.
Also schwiegen sie feige um die Schönheit
herum, gaben vor, Diplomatie zu betreiben.
Sie rechneten, betrieben Kalkulation
und teilten am Ende dem Kolibri mit,
man habe beschlossen, Farbe,
das sei Illusion. Der Vogel staunte,
er lernte das Staunen unvermittelt
von den Menschen, flog zu den lila Blüten,
setzte sich hin und packte sein Zauberbuch aus.
Dann blätterte er einige Mal hin und her,
verwandelte sich in einen Schmetterling,
malte seine Flügel blau und sagte
zu den Menschen: ich bin der Himmel.
Die Farbe sprach dafür.
Aber die neuen Kinder hatten keine Träume mehr.
Sie nahmen das sprechende Wunder
zwischen die Finger. Und erst der Staub
rief sie ins Staunen. Der Schmetterling
wurde unterdessen gelb, flog in die Urgegend
der Bilder, ruhte auf den reifenden Zitronen,
wurde ein Kolibri, kam unverwandelt
in die Gattung der Träume hinein,
sah sich um, sah die dort vorhandenen
Menschen, und hatte Geduld.
Marica Bodrožić è nata in Dalmazia nel 1973 e lì è vissuta, a Svib, affidata alle cure del nonno fino al decimo anno di età. A dieci anni si trasferisce in Germania, dove già da tempo lavorano i genitori. Da allora nasce la storia d’amore tra Marica e il tedesco, la storia narrata nel volume autobiografico apparso nel 2007, Sterne erben, Sterne färben. Meine Ankunft in Wörtern (Ereditare le stelle, colorare le stelle. Il mio approdo in parole). Ha scritto poesie (Lichtorgeln, Organi di luce, Ein Kolibri kam unverwandelt, Un colibrì giunse immutato), racconti (Der Windsammler, Il raccoglitore di vento), romanzi (del 2010 è Das Gedächtnis der Libellen, La memoria delle libellule).
La raccolta di racconti Tito ist tot, apparsa nell’originale in tedesco nel 2002, è stata pubblicata in traduzione italiana dalla casa editrice Zandonai. Questo è stato il mio terzo incontro con la scrittura di Marica Bodrožić. È proprio qui, a mio parere, che si manifesta, anche nell’impeccabile resa di Giusi Drago, quel ‘dire Dalmazia in tedesco’ che nella prosa chiaroveggente di Marica Bodrožić si muta in moto universale. Seminare ricordi nelle terre calpestate, pescare parole come perle da un fondo marino sconosciuto ai più: tutto questo avviene a dispetto e nel rispetto del silenzio, che sempre – sono le parole che Marica Bodrožić dedica a Christine Lavant – circonda la scrittura. Qui avviene qualcosa in più; si tratta di un fenomeno che anni fa ho descritto in un contributo apparso sulla rivista "Frontiere” (La” Migrantenliteratur “ oggi nei paesi di lingua tedesca. Premio Adelbert von Chamisso e dintorni, Frontiere, Anno IV, numero 7, giugno 2003, 17-21): lo strazio della sospensione tra due mondi si tramuta in parola nuova, che a sua volta genera altri mondi.
L’esempio che maggiormente salta agli occhi è nel titolo di uno dei racconti della raccolta, Matrilineo. Solo collegando la parola tedesca per ‘madre’, Mutter, e quella per ‘neo’, Muttermal, al ‘temerario’ neologismo muttergemalt (che suonerebbe anche come ‘dipinto da madre’ – malen significa in tedesco ‘dipingere’, gemalt è il participio passato del verbo) si comprende, insieme al titolo, anche quanto ricco sia il bottino di significato e di significati generato da ciò che l’io narrante descrive come un vero e proprio cortocircuito*:
“Avevo paura dei suoi occhi che sapevano. E quando un giorno mi disse che era sempre con me, nella tasca del mio zaino, scesi dalla bicicletta lungo il tragitto per andare a scuola, mi portai sul margine della stretta stradina in mezzo ai campi fiancheggiata da giovani meli e controllai se mamma fosse davvero lì oppure se nella tasca ci fosse solo la sua testa o una parte della sua testa (magari soltanto gli occhi?). Ma era solo una tasca cucita sullo zaino, all’interno del quale stavano a malapena i libri e i quaderni.
Sul polpaccio sinistro avevo un neo delle dimensioni di un bulbo oculare che somigliava a un cuore e, sebbene tutti quelli che l’hanno visto mi abbiano assicurato che non gli assomigliava, io continuo a credere che si trattasse senza dubbio di un cuore. Ormai da tempo non pensavo più alla ferita al piede e avevo dimenticato anche il tabacco che era entrato a far parte della mia carne. Ci eravamo trasferiti in un Paese di cui ancora non parlavo la lingua, anche se mi lambiva in modo singolare, tanto che mi pareva di nuotare in essa come in un bacino pieno di suoni meravigliosi. Non so perché: forse, siccome la conoscevo già da prima, avevo sentito quella lingua dentro di me sin dall’inizio […]
Durante l’ora di ginnastica, quando il mio sguardo cadde di nuovo sul cuore e sul polpaccio, dissi neo matrilineo. L’espressione mi era salita alle labbra, flebile e impercettibile. I bambini risero, eliminarono il matri e il li e si misero a canzonarmi: neo-neo. Ma non servì, quella parola, matrilineo, continuava a tornarmi indietro nella sua interezza, così la ripetei sottovoce, mormorandola tra me e me.” (Marica Bodrožić, È morto Tito. Prefazione di Claudio Magris, Zandonai, Rovereto 2010, 58-59)
Nella Dalmazia di È morto Tito i fiori, le piante, gli alberi, gli animali, le persone, tutte le presenze scelte per seminare e pescare parole le si stagliano con il coraggio caparbiamente consapevole della loro diversità e dalla loro stralunata e tenace chiaroveggenza sono accomunate: La farfalla dai molti occhi alla Sterminaserpi, L’amante dei gigli alla Pescatrice. Dal racconto La Pescatrice e i morti giunge una visione-monito, un quieto e insieme netto indicare negli altri, i normali, la “banalità del male”:
“Nessuno di loro ha le rughe del sorriso, nessuno diventa vecchio con il sorriso sul volto. Le loro case si estendono in lunghezza e sono fitte come argini costieri, imitano i viottoli stretti, le basse costruzioni simili a dighe sul Watt, la piana tidale del mare del Nord. Sotto i loro piedi c’è terra, boscaglia e legno. Credono di poter strappare ancora altra terra al mare anche se gli hanno già rubato il pezzo più grande possibile di insenatura. Costruiscono dighe e non sanno più perché. Hanno tutto ciò di cui hanno bisogno. Eppure costruiscono dighe come se la terra non si chiamasse terra, ma fosse un tappeto persiano che è possibile disfare, ritessere in forma di arazzo e sventrare come un pesce”. (p. 117)
____________________________________________________
* A chi volesse approfondire la questione del plurilinguismo creativo consiglio la lettura di Pluridimensionale Kreativität und Interpretation von Text und Sprache di Dagmar Winkler, articolo apparso nel gennaio 2010 sulla rivista Internet-Zeitschrift für Kulturwissenschaften.
Ultimi commenti