Un titolo, Bastardo posto, che si rivela già in apertura come il sogno, impossibile, di caratteri cubitali di denuncia sulla prima pagina de “La civetta”, quotidiano di una città ‘giù al nord’ dal nome che è sberleffo evocativo.
Un incipit ‘plastico’ nel suo effetto di straniamento, che presenta il personaggio - punto di vista, osservatorio, testimone muto – attorno al quale ruotano eventi, presso il quale si rifugiano anime più o meno smarrite, dai cui occhi sono attratti coloro ai quali la vita ha giocato il tiro dell’alternanza incontrollata di disarmante annebbiamento e inusuale acutezza della vista: il manichino.
Una scansione in cinque notti, che accompagna vagabondaggi forzati, peregrinazioni impietose, elucubrazioni insonni di uomini e donne – principalmente, non solo, Paolo Limara, don Guido Bianchi, Viola Rodesi, Jenny - che oscillano tra il fascino per l’abisso e la resistenza con l’esercizio della ragione, tra il compiacimento nel vedersi relitto e il sussulto alla ricerca della verità.
Un ritmo, sostenuto e non precipitoso, che accompagna il lettore nel suo viaggio di progressiva scoperta e che si avvale dell’alternanza esperta, a ‘svelamento graduale’, di prospettiva personale – a più voci – e di narrazione onnisciente.
Una struttura che dà senso all’abbinamento dell’aggettivo ‘classico’ al genere noir e che invita ad applicare a Bastardo posto di Remo Bassini quello che Brecht scriveva già negli anni Trenta sul romanzo poliziesco, in note apparse poi in Scritti sulla letteratura e sull’arte: “anch’esso ha uno schema e rivela la sua forza nella variazione”.
In sintonia con l’articolazione del romanzo, ho scelto di elencare solo cinque motivi per dare corpo a questo mio invito alla lettura. Bastardo posto di Remo Bassini mi ha dato, tuttavia, la consapevolezza che le ragioni per leggerlo sono ben più di cinque.