Racconti fra cielo e terra è il sottotitolo della raccolta Guida pratica all’eternità, Effatà Editrice, Cantalupa (Torino) 2008 di Fabrizio Centofanti.
Il volume, rispettivamente aperto e chiuso da una prefazione di Remo Bassini e da una postfazione di Riccardo Ferrazzi, contiene diciannove racconti e tre quadretti, precedentemente pubblicati, con il titolo-filo conduttore Vita da prete, sul litblog “Nazione indiana”.
La definizione di ‘bozzetti’ per i racconti di Fabrizio Centofanti è riduttiva. Ogni racconto è piuttosto un incontro, talvolta uno scontro, con persone, mai con personaggi, con le loro individualità quiete e tormentate, autorevoli e bizzarre, consapevoli e caparbie, con le svolte imprevedibili e incontrollabili dalla volontà umana nelle loro biografie, con le ‘occasioni’ create da una scelta, un gesto, uno scatto.
Per chi legge, ciascuno di questi incontri è una ‘occasione’, è l’occasione di imbattersi nell’altro-da-sé. Come nella vita – in questo sta la particolare epifania di Guida pratica all’eternità – sta poi alla scelta individuale la decisione di dedicare o meno attenzione, sollecitudine, sguardo, tempo a colei o colui che ci viene incontro. Può capitare, allora, che conoscere l’altro sia ri-conoscere, che il percorso di lettura si riveli via di Emmaus. Questa è una chiave di lettura, senz’altro non l’unica, ma una possibile proposta di accesso a questa raccolta come a un inesauribile breviario, a un costante compagno di viaggio.
Nell’ideale ‘breviario’ ho i miei incontri preferiti: con il veggente di Dialoghi fra cielo e terra, con Agatino del racconto omonimo, con Franca, l’imperiosa consacrata dell'irresistibile racconto Pastorale.
In questo “costante compagno di viaggio” ho individuato la tappa centrale nel racconto Come stai? Questa domanda, che già nel Parzival di Wolfram von Eschenbach era la domanda salvifica, mi sembra risolta qui nella direzione di quella che Edith Stein definiva la “sancta discretio”. Per questo motivo ripropongo su questo blog la lettura del racconto, ringraziando Fabrizio Centofanti per l’autorizzazione a pubblicarlo. E cerco di aprire gli occhi.
Anna si prostituiva. Venne a parlarci del figlio drogato, delle cattive compagnie, della morsa fatale in cui era stretto. Era una donna un po’ grossa e cadente, di quelle che non capisci come possano attrarre anche l’avventore dal palato meno fino. I capelli nerissimi incorniciavano un viso che tendeva ad allargarsi, gli occhi erano il dettaglio più espressivo: aperti, in tutti i sensi, come fosse caduta l’ultima barriera tra il suo mondo e quello altrui.
Cercavo d’immaginarla sulla strada, ad aspettare qualcuno che avesse bisogno di sfogare la solitudine o la rabbia, o fosse in cerca di una felicità da quattro soldi. Mi chiedevo quali pensieri passassero nei momenti dell’attesa, quando si sa che l’uomo che si ferma è un cliente frettoloso, assorto nel suo cupo desiderio, solo, anche nel momento della più grande intimità.
Pensavo a me, quando la disperazione mi portò a cercare nelle Ceres una fuga impossibile dal dolore sordo e muto, che ritrovavo a ogni angolo di strada. Anna ci chiedeva di aiutare il figlio, e ricordavo l’aiuto che avrei voluto anch’io quando tutto era crollato. Ci sono giorni in cui il tempo è sospeso sul desiderio d’impuntarsi, di dire no alla macchina infernale che ti stritola; momenti in cui ogni sorso di birra diventa il carburante per sprofondare nell’abisso, e perfino la notte ti compatisce con la sua faccia scura, con gli occhi spalancati delle stelle.
Gli occhi di Anna: forse riuscivo ad afferrare, adesso, quella strana apertura, quel crollo dell’ultimo diaframma di fronte al mistero della vita. Ci parlava di Fabrizio, suo figlio, della bontà che diventava debolezza, del dolore che si mutava in vizio, dipendenza.
Don Mario lo conobbe, qualche tempo dopo, in ospedale, dove non gli parlava più nessuno: avevano alzato un muro di silenzio per fronteggiare la sua aggressività; ce l’aveva col mondo e urlava contro tutti, infermieri, medici, pazienti. Io, che accompagnavo Don Mario, vedevo in lui la mia scontrosità dei tempi bui, quando, già prete, una sciocchezza qualsiasi mi mandava in bestia, ma dovevo tenermi tutto dentro. Per fino le suore e l’altro viceparroco diventavano nemici da combattere. Non ero mai stato così solo.
Anche Fabrizio era solo. Non sapeva come fare per essere ammesso in ospedale: la madre lo guardava con gli occhi aperti, in tutti i sensi, ma il senso giusto per varcare la soglia non riusciva a trovarlo, e poi si sa che una madre prostituta non è il biglietto da visita migliore.
Così la vedemmo arrivare, con una fede grande in noi, poveri preti. Eppure fu Fabrizio che si procurò il miracolo: ingoiò una quantità indefinita di monete, e venne operato con la massima urgenza. Era felice: finalmente qualcuno lo curava e coccolava; il medico si sistemava accanto a lui e gli faceva un sacco di domande, sull’infanzia, sulla madre prostituta, su com’era cresciuto, nella strada. Forse non era un medico, ma uno che leggeva nei pensieri. O fingeva di leggervi. Sta di fatto che, dopo un poco, Fabrizio si stancò e lo mandò all’inferno.
Fu allora che venne eretto quel muro invalicabile: nessuno che gli rivolgesse la parola, che accorresse quando suonava il campanello per chiedere qualcosa. Il ragazzo tornò a essere intrattabile, urlava notte e giorno. Mi ricordai dell’urlo nelle mie notti cieche, la musica al massimo volume nell’auto lanciata sullo stretto litorale, per non sentire il dolore che montava. Otto, dieci Ceres, la nebbia che saliva agli occhi, il cupo desiderio che invadeva tutto.
Le urla di Fabrizio s’interruppero di colpo: aveva visto una figura nera, con un colletto bianco. Era don Mario. Il prete aveva il potere di calmare le persone prima ancora di parlare. Guardò il ragazzo e gli disse: «Come stai?». L’avrebbe detto anche più tardi, quando giaceva avvolto nelle bende, come una mummia dell’antico Egitto, al reparto grandi ustioni dell’ospedale Sant’Eutgenio. La gente gli veniva vicino, in lacrime, perché sapeva che era in bilico tra la vita e la morte. Lui li guardava con i suoi occhi aperti, in tutti i sensi, l’amico, il parente, il parrocchiano, e chiedeva: «Come stai?».
Il misterioso potere di calmare scaturiva da questa domanda, lanciata oltre la soglia estrema tra la vita e la morte, un ingresso da varcare da soli, dove non valgono le raccomandazioni, e anche se sei un drogato puoi passare, senza che ti costringano a ingoiare una manciata di monete. «Come stai?». Questa domanda salvò Fabrizio, che diventò trattabile e si lasciò portare docilmente fino al treno che partiva per il centro terapeutico francese. E, a pensarci bene, salvò anche me. Quando don Mario mi chiese: «Come stai?», mi accorsi, non subito, diciamo lentamente, ma sempre più, che le dieci Ceres erano un ricordo del passato, di fronte agli occhi aperti di don Mario, aperti in tutti i sensi, come quelli di Anna, come quelli di tutte le creature che abbattono l’ultimo steccato, e passano avanti in quel regno dove si entra senza trucchi, anche se sei un drogato o una puttana, anche se la notte, con la sua faccia scura, ti guarda con uno strano senso di pietà.
Fabrizio Centofanti, Guida pratica all’eternità. Racconti fra cielo e terra, Effatà Editrice, Cantalupa (Torino) 2008, 57-60