Un comandamento nuovo
Tempi strani, questi, nei quali è la disparità a prevalere. Mentre la domanda lanciata da padre Beppe Giunti resta ancora senza risposte e misteriosi impedimenti tecnici negano il diritto di cittadinanza a commenti di condivisione al quesito lì posto in tutta la sua drammatica urgenza, non posso, non voglio ignorare quel “comandamento nuovo”, oggi al centro della riflessione, in realtà elemento fondante di una scelta.
Riprendo allora una lettura che è anch’essa impegnativa, come la scelta di seguire quel “comandamento nuovo”. Si tratta di Abitare i confini. Per una grammatica dell’esistenza di Carmelo Dotolo. Scelgo di soffermarmi, oggi, sul capitolo III, Eros e Agape. Trovo alcuni passi significativi, che riporto qui:
“Si fa fatica a catturare il significato profondo dell’amore. È una parola che non riesce a esprimere tutta la realtà e la intenzionalità essenziale di una dimensione che abbraccia l’intera esistenza. Forse, perché siamo alla presenza dell’impossibile, dell’utopia o, meglio, dell’essenza stessa della vita dell’uomo. Non è un caso che amare è un mistero complesso, mistero tremendo e affascinante, che ci vede implicati come protagonisti, per il motivo che nell’amore si gioca il nostro essere uomini, la verità di quel cammino che caratterizza l’evento prodigioso dell’esistenza. [...] Eppure, sembra che il nostro tempo abbia usurato il senso dell’amore, quasi a dimostrarne la fragilità insormontabile e la pretesa, forse ingenua, di coglierlo come spazio di una qualità differente. L’epoca del disincanto e della liquidità interpretativa ha fatto emergere l’equivocità dell’amore come fenomeno paradossale [...] Ma ha anche disilluso chi, con il beneplacito dell’esperienza, sa che amare è un investimento oneroso, non sempre gratificante come certa letteratura lascia intendere” (Carmelo Dotolo, Abitare i confini. Per una grammatica dell’esistenza, Transeuropa, Massa 2008, 41-42).
Nello sviluppo delle sue argomentazioni, Carmelo Dotolo menziona più avanti Zygmunt Bauman, il quale su quel “precetto” osserva:
“L'invito ad «amare il prossimo tuo come te stesso», dice Freud (in Il disagio della civiltà), è uno dei princípi di fondo della vita civile. È anche quello maggiormente contrario al genere di ragione che la civiltà promuove: la ragione dell'egoismo, e quella della ricerca della felicità. Questo principio fondante della civiltà potrebbe essere accettato come «sensato», fatto proprio e messo in pratica solo qualora ci si arrenda all'ammonimento teologico credere quia absurdum - credici perché è assurdo. In realtà, basta chiedersi «Perché mai dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne può derivare?» per percepire l'assurdità della richiesta di amare il proprio prossimo - qualsiasi prossimo, per il solo fatto che è il mio prossimo. Se amo qualcuno, è perché in qualche modo se l'è meritato. «Costui merita il mio amore se mi assomiglia in certi aspetti importanti, talché in lui io possa amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l'ideale di me stesso [...] Ma se per me è un estraneo e non può attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva, amarlo mi sarà difficile». [...] Accettare tale ordine è un grande atto di fede; un atto decisivo, in virtù del quale un essere umano infrange e fuoriesce dal guscio degli impulsi, degli stimoli e delle inclinazioni «naturali» e si trasforma nell'essere «innaturale» che è l'uomo, a differenza delle bestie (e degli angeli, come sostenuto da Aristotele). L'accettazione del precetto di amare il proprio prossimo è l'atto di nascita dell'umanità. Tutte le altre routine di coabitazione umana, nonché le loro regole predesignate o scoperte retrospettivamente, non sono che un elenco (mai completo) di note a margine di quel precetto. [...] Amare il nostro prossimo come amiamo noi stessi significherebbe rispettare la reciproca unicità: apprezzare il valore delle nostre differenze, le quali arricchiscono il mondo che tutti insieme abitiamo, rendendolo un luogo più affascinante e godibile."
(Z. Bauman, Amore Liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari 2007, 108)
Sono letture impegnative, sì. Impegnano l’intera esistenza. Sono distanti dalla retorica dell’amore, escludono qualsiasi uso e abuso strumentale della parola “amore”, quella che occhieggia sfacciata, stracciata nella sua consistenza e falsa nella sostanza, dai manifesti post-elettorali che battono cassa anche nella mia città.
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